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Sulla valenza del rifiuto del datore di lavoro a ricercare accomodamenti ragionevoli ai fini della valutazione della ricorrenza della buona fede nell’inadempimento del lavoratore rilevante ai sensi dell’art. 1460 c.c.

Premesso ciò, la Corte di Cassazione, accogliendo uno specifico motivo di ricorso, ha rilevato che, nell'applicare l'art. 1460, secondo comma, c.c., secondo cui il lavoratore può rifiutarsi di adempiere alla propria prestazione solo quando tale rifiuto, valutato alla luce delle circostanze del caso concreto, non sia contrario ai principi di buona fede, la Corte d’Appello avrebbe dovuto considerare adeguatamente l'entità dell'inadempimento del datore di lavoro. Questo parametro deve essere esaminato in relazione al complessivo equilibrio di interessi regolati dal contratto e alla concreta incidenza dell'inadempimento datoriale su esigenze fondamentali, sia personali sia familiari, del lavoratore. A tal proposito, la Suprema Corte rimanda a precedenti sentenze sul tema, come Cass. 4404/2022 e Cass. 11408/2018.

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Lavoratore malato può rifiutare il trasferimento?

La Cassazione, con la sentenza n. 21391/2019, ha chiarito che il dipendente non può rifiutare automaticamente un trasferimento, nemmeno nel caso in cui lo consideri illegittimo. Tuttavia, il mancato svolgimento della prestazione lavorativa è considerato legittimo se il trasferimento comporta per il lavoratore un grave o irreparabile danno, come nel caso di chi necessita di cure salvavita quotidiane, ad esempio un dipendente affetto da cancro. In tali situazioni, il rifiuto non viola i principi di buona fede.

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Pensioni di invalidità 2025, arrivano gli aumenti fino a 850 euro al mese, ecco per chi e i requisiti: tutte le cifre.

Pertanto, sono previsti degli incrementi per gli invalidi, che oscilleranno tra 400 e 850 euro mensili, ma esclusivamente per coloro che risultano totalmente inabili a svolgere attività lavorative. Al contrario, per chi presenta una parziale inabilità, con una percentuale compresa tra il 74% e il 99%, gli aumenti saranno esigui e corrisponderanno solo a pochi euro al mese. Questo perché la rivalutazione per il prossimo anno prevede un incremento minimo dello 0,8%, comportando differenze trascurabili rispetto agli importi percepiti nel 2024.

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Il recesso anticipato dal contratto a termine: quali conseguenze?

In applicazione dell’art. 2119 Cod. Civ., la giurisprudenza ha dunque escluso il recesso anticipato per ragioni diverse dalla giusta causa, non potendo trovare applicazione nemmeno il licenziamento per giustificato motivo oggettivo (sul punto, Trib. Roma, 28 settembre 2020, n. 4817, che ha ritenuto “la riorganizzazione dell’assetto produttivo dell’impresa” circostanza non idonea “a risolvere in anticipo un contratto di lavoro a tempo determinato”). Resta invece ferma la possibilità di risolvere consensualmente il rapporto.

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INAIL: termine triennale per l’esercizio del regresso decorre dal passaggio in giudicato della sentenza penale

Nell'interpretare la norma, le Sezioni Unite di questa Corte, Sentenza n. 5160 del 16 marzo 2015 (Rv. 634460-01), hanno affermato che il termine triennale previsto dall'art. 112 del D.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124, stante il principio di stretta interpretazione delle norme in tema di decadenza, ha natura di prescrizione e, ove non sia stato iniziato alcun procedimento penale, decorre dal momento di liquidazione dell'indennizzo al danneggiato (ovvero, in caso di rendita, dalla data di costituzione della stessa), il quale costituisce il fatto certo e costitutivo del diritto sorto dal rapporto assicurativo, dovendosi ritenere che detta azione, con la quale l'Istituto fa valere in giudizio un proprio credito in rivalsa, sia assimilabile a quella di risarcimento danni promossa dall'infortunato, atteso che il diritto viene esercitato nei limiti del complessivo danno civilistico ed è funzionale a sanzionare il datore di lavoro, consentendo, al contempo, di recuperare quanto corrisposto al danneggiato.

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L’ingiuria verso un collega di lavoro non costituisce causa di licenziamento per giusta causa in quanto non incide sul rapporto di fiducia con il datore di lavoro.

Gli Ermellini ricordano sul tema che il “… principio affermato in sede di legittimità (per tutte, Cass. n. 5095/2011; Cass. n. 6498/2012) secondo cui la giusta causa di licenziamento, quale fatto “che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto”, è una nozione che la legge – allo scopo di un adeguamento delle norme alla realtà da disciplinare, articolata e mutevole nel tempo -configura con una disposizione (ascrivibile alla tipologia delle cosiddette clausole generali) di limitato contenuto, delineante un modulo generico che richiede di essere specificato in sede interpretativa, mediante la valorizzazione sia di fattori esterni relativi alla coscienza generale, sia di principi che la stessa disposizione tacitamente richiama. Tali specificazioni del parametro normativo hanno natura giuridica e la loro disapplicazione è quindi deducibile in sede di legittimità.

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Accertamento dell’omissione contributiva

Tale costante insegnamento si fonda sull’assunto, secondo cui pur non essendo creditore dei contributi previdenziali (Cass. Sez. Un. n. 7514/2022, Cass. n. 20697/2022; Cass. 6722 del 10/03/2021) - il lavoratore è comunque titolare del diritto, di derivazione costituzionale, alla “posizione contributiva” ovvero del “diritto all’integrità della posizione contributiva” a cui l’omissione contributiva reca un pregiudizio attuale (“danno da irregolarità contributiva”), quale comportamento potenzialmente dannoso.

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Malattia professionale: se è tabellata al lavoratore basta dimostrare di esserne affetto

Poiché nella specie risulta pacificamente accertato che la malattia non era tabellata rispetto all'attività svolta l'accertamento della Corte che ha verificato l'esistenza del nesso eziologico alla luce delle allegazioni e delle prove offerte non è censurabile in questa sede se non nei limiti del vizio di motivazione per quanto ancora ammissibile e, nello specifico, neppure dedotto.

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Licenziamenti: la previsione, da parte del contratto collettivo o del codice disciplinare, della sanzione espulsiva non è vincolante per il giudice

L’interpretazione più restrittiva limitava l’accesso alla tutela c.d. reale (reintegrazione nel posto di lavoro) ai casi in cui la valutazione di proporzionalità, fra sanzione conservativa e fatto contestato, fosse precisamente tipizzata dalla contrattazione collettiva o dal codice disciplinare mediante una specifica ed analitica descrizione delle condotte meritevoli soltanto di una sanzione conservativa (Cass. civ. n. 19578/2019; Cass. civ. n. 13533/2019; Cass. civ. n. 12365/2019), esclusa l’utilizzabilità di clausole generali come la “gravità”.

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