Immaginate un dipendente che, senza dire nulla a nessuno, registra di nascosto una conversazione di quasi due ore tra il direttore del personale e una collega delle risorse umane, avvenuta nei locali aziendali. Lo fa nel 2016, senza che ci sia alcun procedimento giudiziario in corso né alcun contenzioso all’orizzonte. Anni dopo, cerca di usare quella registrazione come prova a proprio favore in un giudizio contro il datore di lavoro. Ma la Corte di Cassazione gli dice di no: non basta invocare il “diritto di difesa” per giustificare qualsiasi registrazione.
È quanto stabilito dall’ordinanza della Corte di Cassazione n. 20487/2025 del 21 luglio 2025, il caso riguarda un lavoratore sanzionato con una sospensione per aver effettuato una registrazione clandestina. Il Tribunale e la Corte d’Appello di Ancona avevano già confermato la legittimità della sanzione, e ora anche la Cassazione ha rigettato il ricorso del dipendente.
Il lavoratore diceva: “È per il mio diritto di difesa”
Il dipendente sosteneva che la registrazione rientrasse nella cosiddetta “scriminante difensiva”: una sorta di eccezione che, secondo lui, avrebbe reso lecita la captazione senza consenso, perché finalizzata a “precostituire prova” per un eventuale futuro giudizio. Inoltre, riteneva che, essendo destinata all’uso processuale, non potesse integrare alcuna violazione dell’obbligo di fedeltà e riservatezza previsto dall’art. 2105 c.c.
Ma la Cassazione non è d’accordo. E lo spiega con chiarezza.
La Cassazione: “Nessun nesso con un diritto da tutelare”
Secondo la Suprema Corte, “il consenso dell’interessato al trattamento dei dati personali (artt. 23 e 24 d.lgs. 196/2003, nella vigenza ratione temporis) non è necessario quando il trattamento sia finalizzato a far valere o difendere un diritto in sede giudiziaria”. Tuttavia, questa deroga “è tuttavia condizionata al rispetto di stringenti requisiti di necessità, pertinenza e proporzionalità tra dato trattato e fine difensivo perseguito, nonché alla sussistenza di un nesso reale con un procedimento pendente o imminente”.
Nel caso specifico, invece:
- “al momento della registrazione (2016) non erano pendenti procedimenti contro il datore”;
- “l’ultima sanzione disciplinare era del 2012 e fu impugnata nel 2018, cioè due anni dopo la captazione”;
- “la conversazione registrata non riguardava fatti poi dedotti nel giudizio del 2018”;
- “la durata (quasi due ore) e il contenuto del file non erano circoscritti alla tutela di uno specifico diritto, ma rivelavano una finalità esplorativa”.
Insomma, mancava del tutto “il nesso di strumentalità tra la registrazione e una concreta esigenza difensiva”. Per questo, “non operano, dunque, né l’art. 24 del Codice privacy (deroga al consenso) né la scriminante dell’art. 51 c.p.”.
La registrazione è un illecito disciplinare
Di conseguenza, la condotta del lavoratore è stata considerata “violazione dei doveri ex art. 2105 c.c. e di correttezza contrattuale”, con piena “legittimità della sanzione conservativa”. La Corte ha anche ribadito che “l’onere di dimostrare i presupposti della scriminante difensiva incombe su chi la invoca”: spetta cioè al lavoratore provare che la registrazione fosse davvero necessaria, pertinente e collegata a un giudizio pendente o imminente.
Cosa dice la giurisprudenza precedente?
La Cassazione non inventa nulla di nuovo. Richiama una serie di precedenti consolidati:
- Cass., S.U., 4 febbraio 2011, n. 3034: “l’esenzione dal consenso nel trattamento dei dati personali per finalità difensive opera nei limiti delineati dalle regole processuali e non legittima raccolte indiscriminate o prognostiche”;
- Cass., 10 maggio 2018, n. 11322: “il diritto di difesa può giustificare la registrazione se sussiste necessità e pertinenza rispetto all’oggetto del giudizio; occorre un concreto collegamento con la tutela da esercitare”;
- Cass., 26 novembre 2014, n. 27424; Cass., 22 aprile 2010, n. 9526; Cass., 17 novembre 2008, n. 27157: “ammissibilità della registrazione di colloqui come prova quando funzionale alla difesa; divieto di utilizzo per finalità diverse o esplorative”.
Morale della favola
La Cassazione manda un messaggio chiaro: il “diritto di difesa” non è un lasciapassare per registrare chiunque, in qualsiasi momento e per qualsiasi motivo. Se non c’è un procedimento pendente o ragionevolmente imminente, se la registrazione non è strettamente necessaria e se il suo contenuto non è direttamente collegato a un diritto concreto da tutelare, allora si tratta di un illecito disciplinare.
E la sanzione – anche se si tratta di una sospensione – è legittima, perché “la registrazione – non difensiva – ha inciso sulla fiducia interna e sulla riservatezza dei colleghi”.
Per i lavoratori, la lezione è semplice: prima di premere “registra”, chiedetevi se state davvero difendendo un diritto… o solo curiosando. Per i datori di lavoro, invece, è utile ricordare l’importanza di policy chiare e di canali di segnalazione alternativi, come il whistleblowing, per evitare che i dipendenti si sentano costretti a fare da sé.

