Tra tutela del lavoro e limiti oggettivi della ricollocazione aziendale
Il diritto del lavoro italiano si confronta da sempre con la necessità di bilanciare due esigenze fondamentali: da un lato, la protezione della persona del lavoratore, specie nei casi di fragilità fisica o psichica; dall’altro, la legittima esigenza del datore di lavoro di gestire in modo efficiente la propria organizzazione produttiva. Questo equilibrio diventa particolarmente delicato quando un dipendente, a causa di una patologia invalidante, perde la capacità di svolgere le mansioni per cui era stato assunto. In tali circostanze, il datore di lavoro può legittimamente procedere al licenziamento?
E se sì, quali sono i presupposti giuridici e fattuali che ne giustificano la legittimità?
A queste domande ha recentemente fornito risposta la Corte di Cassazione con due pronunce del 2025, che offrono un’importante occasione per riflettere sulle condizioni in cui il recesso datoriale può ritenersi giustificato anche nei confronti di una lavoratrice divenuta disabile.
La questione di fondo riguarda l’applicazione dell’art. 2119 del Codice civile, che disciplina la risoluzione del rapporto di lavoro per “sopravvenuta impossibilità della prestazione”. Tale norma, pur non essendo espressamente richiamata nelle sentenze in esame, costituisce il fondamento giuridico sottostante al licenziamento per inidoneità sopravvenuta. Tuttavia, nel contesto del rapporto di lavoro subordinato, l’impossibilità non deve essere intesa in senso assoluto, ma va valutata alla luce delle possibilità concrete di ricollocamento del lavoratore all’interno dell’azienda. In particolare, la giurisprudenza ha da tempo affermato che il datore di lavoro non può limitarsi a constatare l’inidoneità alle mansioni originarie, ma deve verificare se esistano altre posizioni lavorative compatibili con lo stato di salute del dipendente.
Solo in assenza di tale possibilità il licenziamento potrà considerarsi legittimo.
È proprio su questo punto che si concentra l’attenzione delle recenti decisioni della Corte di Cassazione nel corso del 2025, che ribadiscono con chiarezza il principio secondo cui il licenziamento di una lavoratrice divenuta disabile non è di per sé illegittimo, ma può essere giustificato qualora non sussistano, all’interno dell’organizzazione aziendale, mansioni alternative compatibili con il suo stato di salute. Tale accertamento non è meramente formale, ma richiede un’analisi concreta e puntuale delle caratteristiche strutturali, dimensionali e organizzative dell’impresa, nonché delle indicazioni fornite dagli organi medico-legali competenti.
La prima delle due pronunce citate è la sentenza n. 18245 del 2025, emessa dalla Corte di Cassazione, Sezione Lavoro. In essa, i giudici di legittimità affermano con nettezza che «il licenziamento per sopravvenuta impossibilità della prestazione lavorativa è legittimo quando il datore di lavoro dimostri l’assenza di mansioni compatibili con lo stato di salute del lavoratore, anche alla luce delle dimensioni e dell’organizzazione dell’azienda». Questo passaggio è particolarmente significativo perché pone in capo al datore di lavoro un onere probatorio specifico: non basta sostenere genericamente che non vi sono posti disponibili, ma occorre dimostrare in concreto che, data la struttura dell’azienda (numero di reparti, tipologia di attività, flessibilità organizzativa, ecc.), non è possibile reimpiegare la lavoratrice in alcuna posizione che rispetti le prescrizioni sanitarie. La Corte, dunque, rifiuta un’interpretazione formalistica del concetto di “impossibilità”, privilegiando invece un approccio contestuale e realistico, che tenga conto delle effettive potenzialità di ricollocazione.
La seconda sentenza richiamata è la n. 17789 del 2025, anch’essa della Sezione Lavoro della Corte di Cassazione. In questo caso, la Suprema Corte precisa ulteriormente i termini del problema, affermando che «la sopravvenuta inidoneità assoluta e permanente del lavoratore, accertata dal competente organo medico-legale, integra una causa di giustificato recesso datoriale, ove non siano individuabili posizioni lavorative alternative idonee a garantire il rispetto delle prescrizioni sanitarie». L’elemento distintivo di questa pronuncia risiede nella qualificazione dell’inidoneità come “assoluta e permanente”, circostanza che rafforza la legittimità del licenziamento, ma solo a condizione che sia stata effettuata una ricerca effettiva di mansioni alternative. Ancora una volta, la Corte non si limita a riconoscere un diritto automatico del datore al recesso, ma subordina la legittimità del licenziamento alla verifica negativa della possibilità di ricollocamento. Ciò implica che il datore debba attivarsi per esplorare ogni ipotesi concreta di reinquadramento, anche al di fuori del reparto originario, e documentare tale attività in sede processuale.
Queste due sentenze, lette congiuntamente, delineano un quadro coerente e rigoroso: il licenziamento di una lavoratrice divenuta disabile non costituisce di per sé una violazione del divieto di discriminazione né una lesione del diritto alla salute o al lavoro, purché sia preceduto da un’attenta valutazione delle alternative disponibili. Il principio di non discriminazione, sancito dall’art. 3 della Costituzione e dalle direttive europee in materia di disabilità, non impone al datore di lavoro un obbligo impossibile, ma richiede un comportamento diligente e proporzionato. In altre parole, la tutela della persona con disabilità non si traduce in un diritto assoluto alla conservazione del posto di lavoro a qualsiasi costo, ma in un diritto a essere considerata in modo equo e a beneficiare di ogni opportunità ragionevole di inclusione lavorativa.
Va sottolineato che la Corte di Cassazione non richiede al datore di lavoro di creare ex novo una posizione ad hoc per il lavoratore disabile, né di assumere oneri sproporzionati rispetto alle dimensioni e alle risorse dell’azienda. Tuttavia, esige che venga compiuto uno sforzo concreto per verificare se, all’interno della struttura esistente, vi siano ruoli compatibili con le limitazioni funzionali accertate. Tale verifica deve essere supportata da elementi oggettivi: per esempio, la mappatura delle mansioni presenti in azienda, il confronto con le indicazioni del medico competente o dell’INPS, la consultazione delle rappresentanze sindacali, ove presenti. In mancanza di tale attività, il licenziamento rischia di essere dichiarato illegittimo per difetto di giustificazione.
In conclusione, le sentenze n. 18245 e n. 17789 del 2025 della Corte di Cassazione rappresentano un importante punto di riferimento per la prassi applicativa in materia di licenziamento per inidoneità sopravvenuta. Esse ribadiscono che la disabilità acquisita non è un fattore ostativo in sé al recesso datoriale, ma che la legittimità di quest’ultimo dipende dalla dimostrazione dell’impossibilità oggettiva di ricollocare il lavoratore in mansioni compatibili. Si tratta di un equilibrio sottile, che richiede al datore di lavoro senso di responsabilità e attenzione ai diritti della persona, e al giudice un’analisi approfondita delle circostanze concrete del caso. Solo in questo modo è possibile coniugare la tutela del lavoro con la sostenibilità dell’attività d’impresa, nel rispetto dei principi costituzionali e delle norme comunitarie in materia di inclusione e non discriminazione.

