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Gli effetti della richiesta di negoziazione assistita sul termine decadenziale di 180 giorni previsto dall’art. 6, co. 2 L. 604/1966 (R.G. n. 3813/2024)

L'impugnazione è inefficace se non è seguita, entro il successivo termine di centottanta giorni, dal deposito del ricorso nella cancelleria del tribunale in funzione di giudice del lavoro o dalla comunicazione alla controparte della richiesta di tentativo di conciliazione o arbitrato, ferma restando la possibilità di produrre nuovi documenti formatisi dopo il deposito del ricorso. Qualora la conciliazione o l'arbitrato richiesti siano rifiutati o non sia raggiunto l'accordo necessario al relativo espletamento, il ricorso al giudice deve essere depositato a pena di decadenza entro sessanta giorni dal rifiuto o dal mancato accordo»).

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Le novità sulla NASpI: nuove restrizioni sui requisiti a partire dal 2025

In particolare, la Legge di Bilancio ha stabilito un nuovo requisito contributivo per i lavoratori che si dimettono volontariamente nell’arco dell’ultimo anno. A decorrere dal 1° gennaio 2025, chi perde il lavoro involontariamente potrà richiedere la NASpI solo se, nel nuovo impiego da cui è stato licenziato (o comunque tra le dimissioni e il licenziamento successivo), ha maturato almeno 13 settimane di contribuzione. Questa disposizione non si applica alle dimissioni per giusta causa, ai casi legati alla maternità e paternità tutelata o alla risoluzione consensuale regolata dall’articolo 7 della legge n. 604/1966.

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Il debito di sicurezza del committente nei confronti dei dipendenti degli appaltatori.

Il committente, che mantiene la disponibilità dell'ambiente di lavoro, è tenuto ad adottare tutte le misure necessarie per garantire l'integrità e la salute dei lavoratori, inclusi quelli dipendenti dall'impresa appaltatrice. Tra tali obblighi rientrano: fornire un'adeguata informazione ai lavoratori in merito ai potenziali rischi, predisporre le misure necessarie per assicurare la sicurezza degli impianti e collaborare con l'appaltatrice nell'applicazione degli strumenti di protezione e prevenzione dai rischi legati sia all'ambiente di lavoro sia all'attività oggetto dell'appalto. Questo principio è stato ribadito dalla Cassazione nella sentenza del 25 febbraio 2019, n. 5419, che richiama precedenti conformi, tra cui le sentenze n. 19494 del 2009, n. 21694 del 2011 e n. 798 del 2017.

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Equitalia: cartelle esattoriali tutte nulle. La sentenza più importante

Con una sentenza che farà tremare il fisco italiano e la tenuta dei conti pubblici, la CTP di Campobasso è la prima Corte a dichiarare la nullità delle cartelle esattoriali notificate da Equitalia perché emesse a seguito di un atto dell’Agenzia delle Entrate firmato da uno dei “falsi dirigenti” (quelli, cioè, decaduti a seguito della sentenza della Corte Costituzionale di marzo scorso). La novità di questa pronuncia è che – confermando quanto avevamo anticipato in tutti questi anni sul nostro giornale e, da ultimo, in “Cartella Equitalia nulla per l’accertamento firmato dal dirigente decaduto” – ad essere annullato non è più (solo) l’accertamento fiscale in sé, ma il successivo atto di Equitalia, la famigerata cartella, notificata quando ormai sono scaduti i termini per impugnare il primo.

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Tassazione delle plusvalenze infraquinquennali

È quindi chiaro che, in queste circostanze, il legislatore tributario considera una situazione di fatto, ovvero la residenza abituale in un certo immobile. Poiché l’obiettivo del legislatore è di natura anti-speculativa, non sembra coerente con la logica della legge escludere dalla tassazione basandosi solo sulla “classificazione catastale”, senza permettere al contribuente di dimostrare l’effettivo utilizzo dell’immobile come abitazione principale, come indicato precedentemente.

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Sulla valenza del rifiuto del datore di lavoro a ricercare accomodamenti ragionevoli ai fini della valutazione della ricorrenza della buona fede nell’inadempimento del lavoratore rilevante ai sensi dell’art. 1460 c.c.

Premesso ciò, la Corte di Cassazione, accogliendo uno specifico motivo di ricorso, ha rilevato che, nell'applicare l'art. 1460, secondo comma, c.c., secondo cui il lavoratore può rifiutarsi di adempiere alla propria prestazione solo quando tale rifiuto, valutato alla luce delle circostanze del caso concreto, non sia contrario ai principi di buona fede, la Corte d’Appello avrebbe dovuto considerare adeguatamente l'entità dell'inadempimento del datore di lavoro. Questo parametro deve essere esaminato in relazione al complessivo equilibrio di interessi regolati dal contratto e alla concreta incidenza dell'inadempimento datoriale su esigenze fondamentali, sia personali sia familiari, del lavoratore. A tal proposito, la Suprema Corte rimanda a precedenti sentenze sul tema, come Cass. 4404/2022 e Cass. 11408/2018.

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Lavoratore malato può rifiutare il trasferimento?

La Cassazione, con la sentenza n. 21391/2019, ha chiarito che il dipendente non può rifiutare automaticamente un trasferimento, nemmeno nel caso in cui lo consideri illegittimo. Tuttavia, il mancato svolgimento della prestazione lavorativa è considerato legittimo se il trasferimento comporta per il lavoratore un grave o irreparabile danno, come nel caso di chi necessita di cure salvavita quotidiane, ad esempio un dipendente affetto da cancro. In tali situazioni, il rifiuto non viola i principi di buona fede.

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Pensioni di invalidità 2025, arrivano gli aumenti fino a 850 euro al mese, ecco per chi e i requisiti: tutte le cifre.

Pertanto, sono previsti degli incrementi per gli invalidi, che oscilleranno tra 400 e 850 euro mensili, ma esclusivamente per coloro che risultano totalmente inabili a svolgere attività lavorative. Al contrario, per chi presenta una parziale inabilità, con una percentuale compresa tra il 74% e il 99%, gli aumenti saranno esigui e corrisponderanno solo a pochi euro al mese. Questo perché la rivalutazione per il prossimo anno prevede un incremento minimo dello 0,8%, comportando differenze trascurabili rispetto agli importi percepiti nel 2024.

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Il recesso anticipato dal contratto a termine: quali conseguenze?

In applicazione dell’art. 2119 Cod. Civ., la giurisprudenza ha dunque escluso il recesso anticipato per ragioni diverse dalla giusta causa, non potendo trovare applicazione nemmeno il licenziamento per giustificato motivo oggettivo (sul punto, Trib. Roma, 28 settembre 2020, n. 4817, che ha ritenuto “la riorganizzazione dell’assetto produttivo dell’impresa” circostanza non idonea “a risolvere in anticipo un contratto di lavoro a tempo determinato”). Resta invece ferma la possibilità di risolvere consensualmente il rapporto.

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