“le novità dalla giurisprudenza 2025 sul Jobs Act e l’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori”
Nel 2025, la giurisprudenza italiana ha ulteriormente precisato i contorni della tutela contro il licenziamento illegittimo, con particolare riferimento alle imprese sotto soglia (fino a 15 dipendenti) e all’applicazione delle norme introdotte dal cosiddetto Jobs Act (D.lgs. n. 23/2015). A fare da guida sono state diverse pronunce della Corte di Cassazione e di Tribunali di merito, che hanno riaffermato principi fondamentali in materia di onere della prova, obbligo di repechage, e tutela risarcitoria.
La Corte Costituzionale e il limite alle 6 mensilità: illegittimo
Un passaggio cruciale è rappresentato dalla sentenza n. 118 del 21 luglio 2025 della Corte Costituzionale, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 9, comma 1, del D.lgs. n. 23/2015 nella parte in cui prevedeva che, nei casi di licenziamento illegittimo intimato da imprese con meno di 15 dipendenti, l’indennità risarcitoria “non può in ogni caso superare il limite di sei mensilità” dell’ultima retribuzione utile.
La Consulta ha ritenuto tale limite “del tutto inadeguato e per nulla dissuasivo”, in quanto “non attuasse un adeguato temperamento degli interessi in conflitto”. Inoltre, “l’esclusivo riferimento al numero di dipendenti, infatti, non consentiva di valorizzare le peculiarità di ciascun caso concreto, non garantiva un giusto ristoro del pregiudizio subito dal lavoratore e non assolveva alla necessaria funzione deterrente rispetto a licenziamenti comminati in assenza di idonea giustificazione”.
Cassazione: tutela fino a 18 mensilità per le imprese sotto soglia
A seguito di questa evoluzione, la Corte di Cassazione ha chiarito che “la tutela risarcitoria per i licenziamenti illegittimi nelle imprese fino a 15 dipendenti potrà ora arrivare fino a 18 mensilità, pari alla metà del massimo previsto per le imprese sopra soglia dall’art. 3, comma 1 del Jobs Act”. Resta invece “esclusa la possibilità di applicare la tutela reintegratoria attenuata di cui all’art. 3, comma 2”.
Obbligo di repechage e licenziamento discriminatorio
Un’altra pronuncia rilevante è l’ordinanza n. 460 del 9 gennaio 2025 della Corte Suprema di Cassazione, Sezione Lavoro (R.G.N. 11134/2022), che ha affrontato il caso di una dirigente con grave handicap (riconosciuto ai sensi dell’art. 3 della legge n. 104/1992) licenziata per soppressione del posto di lavoro.
La Cassazione ha ribadito che “il datore di lavoro, prima di estinguere il rapporto di lavoro, aveva l’obbligo di offrire al lavoratore anche gli altri posti di lavoro vacanti e disponibili nell’orario di lavoro che questi già osservava e che ha successivamente riempito con l’assunzione di nuovi dipendenti”.
Inoltre, la Corte ha criticato l’impostazione del giudice di merito, sottolineando che “l’accertata sussistenza di una motivazione organizzativa del licenziamento non preclude ex se la sua natura discriminatoria”.
Tribunale di Catania: licenziamento nullo per mancanza di forma scritta
Il Tribunale di Catania, con ricorso datato 2024 , ha trattato un caso in cui il lavoratore aveva impugnato il licenziamento “deducendo, nella sostanza, un unico ed assorbente motivo: la mancanza di forma scritta dell’atto di recesso, e dunque la sua nullità”.
Tribunale di Ancona: il doppio licenziamento
Con sentenza n. 213 del 29 marzo 2025, il Tribunale di Ancona ha esaminato una fattispecie di doppio licenziamento, affermando che “se il primo licenziamento – sebbene illegittimo – è idoneo ad interrompere il rapporto di lavoro, la verifica di legittimità del secondo atto di recesso diviene irrilevante”.
Art. 18 Statuto dei Lavoratori: reintegra e indennità
La giurisprudenza ha più volte ribadito che, “nell’ipotesi in cui risulti l’insussistenza del fatto (contestato o posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo), l’art. 18 commi 4 e 7 prevedono come sanzione la reintegrazione nel posto di lavoro unitamente al pagamento di un’indennità risarcitoria che non può essere superiore a dodici mensilità della retribuzione globale di fatto” (Cassazione, R.G. 1306/2025, pubblicazione 11/04/2025).
Onere della prova nel licenziamento discriminatorio
Infine, la Cassazione ha chiarito che, “a differenza del licenziamento per motivo ritorsivo, la prova della unicità e determinatezza del motivo non rileva nel caso di licenziamento discriminatorio, che ben può accompagnarsi ad altro motivo legittimo ed essere comunque nullo” (Cass. n. 2414/22 e Cass. n. 13934/24, richiamate nell’ordinanza n. 460/2025).
“Licenziamento illegittimo e tutela antidiscriminatoria: le sentenze del 2025 che riscrivono il Jobs Act”
1. La Corte di Cassazione ribalta la logica del “motivo organizzativo”
Con ordinanza n. 460 del 9 gennaio 2025 (R.G.N. 11134/2022), la Corte Suprema di Cassazione, Sezione Lavoro, ha riaffermato un principio fondamentale:
«L’accertata sussistenza di una motivazione organizzativa del licenziamento non preclude ex se la sua natura discriminatoria. Il licenziamento può essere, direttamente o indirettamente, discriminatorio anche quando concorra una ragione legittima, quale il motivo economico.»
La Corte ha criticato la sentenza della Corte d’Appello di Roma, che aveva escluso la natura discriminatoria del licenziamento sulla base della «sussistenza di un elemento forte del motivo riorganizzativo». Tale approccio, secondo gli Ermellini, è in contrasto con la normativa antidiscriminatoria e con la giurisprudenza consolidata.
2. Onere della prova: non serve la “prova piena” della discriminazione
La Cassazione ha ricordato che, in materia di discriminazione per disabilità, non è richiesta la prova piena, ma solo l’offerta di elementi diretti plausibili. Come recita testualmente l’ordinanza:
«L’art. 4 del D.Lgs. n. 216/2003 e l’art. 28 del D.Lgs. n. 150/2011 stabiliscono, invece, un regime probatorio agevolato a favore del soggetto che si assume discriminato. Non è richiesta la prova piena della discriminazione, ma è sufficiente che la parte che agisce in giudizio offra elementi diretti […] a far ritenere plausibile che la condotta tenuta dalla controparte sia scaturita dal fattore di rischio cui è esposto.»
Una volta offerti tali elementi, l’onere si inverte:
«Spetta al datore di lavoro provare l’insussistenza della discriminazione.»
3. Il licenziamento in sé può essere atto discriminatorio
La Corte ha esplicitamente rigettato la tesi secondo cui la discriminazione debba emergere solo da un confronto con le condizioni di lavoro di altri dipendenti (part-time, smart working, ecc.). Al contrario:
«La Corte d’Appello ha erroneamente ritenuto che l’atto discriminatorio non potesse consistere nel licenziamento in sé. […] La discriminazione può manifestarsi anche nell’atto di licenziamento in quanto tale.»
In particolare, la lavoratrice licenziata era l’unica dirigente disabile e l’unica licenziata tra i manager, circostanza rilevante ai fini della prova indiziaria:
«La ricorrente era l’unica disabile tra i manager aziendali ed è stata l’unica licenziata tra questi.»
4. Molestie e condotte vessatorie rientrano nella nozione di discriminazione
L’ordinanza richiama espressamente l’art. 2 del D.Lgs. 216/2003:
«Sono, altresì, considerate come discriminazioni, ai sensi del comma 1, anche le molestie ovvero quei comportamenti indesiderati, posti in essere per uno dei motivi di cui all’articolo 1, aventi lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una persona e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante od offensivo.»
La Corte territoriale aveva già riconosciuto un danno biologico di € 52.446,00 per lo stress lavorativo derivante da «numerose e-mail a contenuto vessatorio» inviate durante il periodo di malattia della lavoratrice.
5. Differenza tra licenziamento ritorsivo e discriminatorio
La Cassazione ribadisce un principio ormai consolidato:
«A differenza del licenziamento ritorsivo, la prova della unicità e determinatezza del motivo non rileva nel caso di licenziamento discriminatorio, che ben può accompagnarsi ad altro motivo legittimo ed essere comunque nullo.»
Citando espressamente la giurisprudenza precedente:
«Da ultimo in questi termini si è espressa altresì Cass. n. 2414/22 e Cass. n. 13934/24.»
6. Conseguenze: cassazione e rinvio
La Corte ha accolto i motivi di ricorso e cassato la sentenza della Corte d’Appello di Roma, disponendo il rinvio «alla Corte d’Appello di Roma, in diversa composizione», con l’indicazione di applicare correttamente:
«La disciplina del d.lgs. n. 216/2003 […] con riferimento al licenziamento discriminatorio ed alla sua nullità in base alla normativa di legge.»

