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Il salario minimo tra art. 36 Cost. e la svolta della legge delega n. 144/2025: verso una nuova architettura della tutela salariale.

La legge delega n. 144/2025 segna una svolta storica nel sistema retributivo italiano: anziché introdurre un salario minimo orario legale, rafforza il ruolo dei contratti collettivi nazionali di lavoro (CCNL) maggiormente applicati come parametro vincolante per garantire una retribuzione proporzionata e sufficiente, in attuazione dell’art. 36 della Costituzione. Parallelamente, la sentenza n. 188/2025 della Corte costituzionale ha dichiarato inammissibili i ricorsi del Governo contro la legge regionale pugliese che fissava un minimo di 9 euro orari negli appalti, aprendo la strada a un confronto istituzionale ancora in corso tra autonomia regionale, competenze statali e diritti dei lavoratori.

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Assegno di Incollocabilità dal 2026: continuità assistenziale per i titolari di rendita INAIL oltre i 67 anni.

Dal 1° gennaio 2026, l’assegno di incollocabilità INAIL sarà erogato fino ai 67 anni, in linea con l’età pensionabile. La misura, confermata dalla circolare INAIL n. 55/2025 e dal decreto-legge n. 159/2025, garantisce continuità assistenziale ai lavoratori con invalidità da infortunio o malattia professionale che non possono essere reinseriti in alcun contesto lavorativo, evitando brusche interruzioni del reddito proprio nella fase di transizione alla pensione.

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L’obbligo di istituire canali interni di whistleblowing: analisi delle Linee Guida ANAC n. 1/2025 alla luce del d.lgs. 24/2023 e della giurisprudenza.

Le Linee Guida ANAC n. 1/2025, adottate il 12 dicembre 2025, forniscono indicazioni vincolanti per l’istituzione e la gestione dei canali interni di whistleblowing, in attuazione del d.lgs. 24/2023 che ha recepito la Direttiva UE 2019/1937. L’obbligo riguarda tutte le pubbliche amministrazioni e i soggetti privati con almeno 50 dipendenti o fatturato superiore a 10 milioni di euro. Il canale deve garantire accessibilità, riservatezza e indipendenza nella gestione, con riscontro entro 7 giorni e indagini entro 3 mesi. La giurisprudenza della Cassazione (sentt. n. 13912/2021 e n. 25678/2022) tutela il segnalante che agisce in buona fede, anche in assenza di prova certa dell’illecito. Il mancato adeguamento espone a sanzioni fino a 50.000 euro e compromette l’efficacia del Modello 231.

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Licenziamento per giusta causa anche fuori dall’orario di lavoro: la violenza fisica rompe il patto di fiducia.

Anche fuori dall’orario o dalla sede di lavoro, un’aggressione fisica tra colleghi può giustificare il licenziamento per giusta causa. Secondo le sentenze della Corte d’Appello di Milano (n. 853/2025) e del Tribunale di Teramo (n. 688/2025), è la violenza fisica—non gli insulti o i moventi personali—a rompere irrimediabilmente il vincolo di fiducia con il datore, soprattutto se la condotta dimostra indifferenza verso gli interessi aziendali e il regolare svolgimento del lavoro.

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Superato il termine per il licenziamento disciplinare: La Corte di Cassazione chiarisce quando scatta la tutela reale e quando invece opera solo quella indennitaria.

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 19381/2023 del 27 ottobre 2025, ha esaminato il caso di un licenziamento disciplinare intimato oltre il termine di 30 giorni previsto dall’art. 51, lett. a), del CCNL dell’industria della carta e del cartone. Il datore di lavoro aveva comunicato una proroga del termine, successivamente ritenuta illegittima in quanto non sussisteva un’istruttoria particolarmente complessa. La Corte ha chiarito che, nonostante il ritardo, la mera comunicazione della proroga – ancorché illegittima – esclude la formazione di un affidamento da parte del lavoratore sulla mancata adozione di sanzioni disciplinari. Pertanto, non si applica la tutela reale ex art. 18, comma 4, dello Statuto dei Lavoratori, ma opera la tutela indennitaria ex comma 5, in ragione del difetto di proporzionalità della sanzione. Inoltre, la Corte ha accolto il ricorso incidentale della società, riconoscendo il diritto alla restituzione delle somme pagate in esecuzione della sentenza di primo grado, successivamente riformata in appello, in quanto l’obbligo restitutorio sorge ex tunc dalla riforma della sentenza, a prescindere dalla buona o mala fede delle parti. La causa è stata rinviata alla Corte d’Appello di Roma, in diversa composizione, per il calcolo della restituzione.

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Demansionamento e risarcimento del danno: cosa deve dimostrare il lavoratore dopo la giurisprudenza recente?

Il demansionamento – ovvero l’assegnazione al lavoratore di mansioni inferiori rispetto al proprio inquadramento contrattuale – costituisce un inadempimento del datore di lavoro ai sensi dell’art. 2103 del Codice Civile. Tuttavia, il risarcimento del danno non è automatico: secondo la giurisprudenza consolidata della Corte di Cassazione (tra cui l’ordinanza n. 11586/2025), spetta al lavoratore provare con fatti concreti il pregiudizio subìto, sia patrimoniale (es. perdita di professionalità o di chance lavorative) sia non patrimoniale (es. danno morale o biologico). Il giudice può quantificare equitativamente il danno, anche sulla base della retribuzione mensile del dipendente, ma solo a fronte di una prova sufficiente della lesione effettiva.

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Stress al lavoro non è mobbing? Non importa: il datore risponde lo stesso. La Cassazione ribadisce i doveri di tutela ex art. 2087 c.c.

La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 31367 del 1° dicembre 2025, ha chiarito che la responsabilità del datore di lavoro ex art. 2087 c.c. sussiste anche in assenza di un intento persecutorio tipico del mobbing: è sufficiente che l’ambiente lavorativo sia oggettivamente stressogeno e lesivo della salute psicofisica del lavoratore. La Corte ha cassato la sentenza di appello che aveva negato il risarcimento perché non configurabile il mobbing, ricordando che comportamenti anche isolati o tecnicamente legittimi, se fonte di stress e dannosi alla dignità e integrità del dipendente, violano l’obbligo di tutela datoriale. Il caso è stato rinviato a nuova decisione.

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Licenziamento legittimo se sostituito dall’intelligenza artificiale? Ecco cosa dice la giurisprudenza.

Il Tribunale di Roma, con la sentenza n. 9135 del 19 novembre 2025, ha stabilito che è legittimo licenziare un dipendente le cui mansioni sono state assorbite dall’intelligenza artificiale, purché l’azienda dimostri tre condizioni essenziali: una reale crisi economico-finanziaria, un nesso diretto tra la riorganizzazione aziendale e la soppressione della posizione, e l’impossibilità oggettiva di ricollocare il lavoratore (principio del repêchage). La decisione segna un importante precedente nel diritto del lavoro, riconoscendo l’IA come strumento legittimo di riorganizzazione, ma solo se inserito in un contesto di crisi documentata e non come pretesto per tagliare il personale.

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A tempo indeterminato, ma solo sulla carta: quando la somministrazione diventa una trappola per la stabilità del lavoro.

La giurisprudenza italiana ed europea sta tracciando con forza un confine invalicabile: la somministrazione di lavoro deve essere temporanea — sempre. Anche quando il lavoratore è assunto a tempo indeterminato dall’agenzia, non è legittimo tenerlo in missione presso lo stesso utilizzatore per anni senza limiti, come se si trattasse di un dipendente occulto. La Corte di Giustizia UE e la Cassazione chiariscono che superare una soglia “ragionevolmente temporanea” configura un abuso, con conseguente costituzione automatica del rapporto di lavoro con l’azienda utilizzatrice. La flessibilità non può diventare una scorciatoia per aggirare la stabilità.

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Intelligenza artificiale bocciata in tribunale: condanna per chi la usa in malafede.

Il Tribunale di Torino, con sentenza n. 2120 del 16 settembre 2025, ha rigettato un’opposizione a ingiunzione di pagamento redatta con l’ausilio dell’intelligenza artificiale, rilevando un testo privo di coerenza logica, argomenti generici e citazioni normative e giurisprudenziali “astratte e inconferenti”. Il giudice ha ritenuto il ricorso non solo inutile, ma abusivo, configurando un caso di lite temeraria ai sensi dell’articolo 96 del Codice di procedura civile. Di conseguenza, la parte è stata condannata al pagamento di 500 euro, da versare sia alle controparti che alla Cassa delle ammende (art. 96, comma 4, c.p.c.), per malafede o colpa grave nell’aver presentato un atto giudiziario sostanzialmente privo di fondamento. Il caso si aggiunge a un precedente del Tribunale di Firenze (marzo 2025), dove un avvocato aveva citato sentenze inesistenti generate da ChatGPT, senza però incorrere in sanzioni poiché non era provata la mala fede. Entrambe le pronunce lanciano un chiaro monito: l’IA può essere un utile strumento di supporto, ma non sostituisce la verifica umana, la competenza professionale e la responsabilità di chi firma un atto giudiziario. L’affidamento cieco all’algoritmo, senza controllo critico, espone a rischi processuali ed economici concreti.

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Il diritto al buono pasto oltre le sei ore di lavoro: un obbligo contrattuale, non una cortesia aziendale.

L'argomento riguarda il diritto di una dipendente di una società di trasporti a ricevere il buono pasto per i turni lavorativi superiori a sei ore, nonostante la mensa aziendale chiuda alle 14:30 e i bar interni alle 17:30, rendendo di fatto impossibile l’accesso al servizio di ristoro. Nonostante ciò, la lavoratrice non ha mai percepito alcun buono pasto né indennità sostitutiva, nonostante svolga regolarmente turni pomeridiani, serali e notturni – come attestano le buste paga dal 2014 al 2021.

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L’obbligo di repêchage nel licenziamento economico: spetta all’azienda provare l’impossibilità di ricollocamento.

Nel licenziamento per giustificato motivo oggettivo, spetta all’azienda dimostrare che non esiste alcuna possibilità di ricollocare il dipendente, anche in mansioni diverse o di livello inferiore. Questo obbligo, noto come repêchage, è di natura sostanziale e probatoria: il datore di lavoro, quale unico detentore delle informazioni sull’organizzazione aziendale, deve provare—con documenti e fatti concreti—che il licenziamento è l’extrema ratio. Non è il lavoratore a dover indicare posti vacanti o chiedere di essere spostato; pretendere il contrario significherebbe capovolgere illegittimamente l’onere della prova, in contrasto con i principi del processo civile e con la giurisprudenza consolidata della Corte di Cassazione (sent. n. 24195/2020).

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