11 settembre 2025 – La Corte di Giustizia dell’Unione Europea (CGUE) ha emesso due pronunce storiche (cause C-5/24 e C-38/24) che ridefiniscono il rapporto tra disabilità, lavoro e responsabilità di cura. Le decisioni non solo ribadiscono principi consolidati, ma li aggiornano alla luce delle sfide attuali del mondo del lavoro, imponendo alle imprese un cambio di passo verso una gestione più personalizzata, proattiva e inclusiva delle risorse umane.
1. Disabilità e periodo di comporto: non basta una regola uguale per tutti
Nella causa C-5/24, la CGUE si è pronunciata su un caso concreto: una lavoratrice disabile licenziata per superamento del periodo di comporto previsto dal CCNL del Turismo (180 giorni retribuiti + 120 di aspettativa non retribuita).
La Corte ha chiarito un punto cruciale: una disciplina uniforme non è di per sé discriminatoria, purché persegua una finalità legittima (es. organizzazione del lavoro) e non ostacoli l’obbligo di “accomodamento ragionevole” previsto dall’articolo 5 della direttiva 2000/78/CE.
Ma attenzione: l’aspettativa aggiuntiva non è di per sé un accomodamento ragionevole, se non è calibrata sulle esigenze specifiche della persona. L’obbligo del datore non si esaurisce nell’applicare regole standard, ma richiede misure concrete e individualizzate: orari flessibili, smart working, modifica delle mansioni, ecc.
In Italia, il recente decreto legislativo 62/2024 introduce proprio la possibilità per il lavoratore disabile di presentare un’istanza scritta di accomodamento ragionevole, partecipando attivamente alla ricerca di soluzioni. Un’occasione per trasformare un obbligo difensivo in un’opportunità di inclusione.
2. I caregiver non sono più “invisibili”: anche loro protetti dalla discriminazione
Nella sentenza C-38/24, la CGUE ha riaffermato con forza un principio già noto ma spesso sottovalutato: il divieto di discriminazione si estende anche a chi assiste una persona con disabilità (la cosiddetta “discriminazione per associazione”, già affermata nella storica sentenza Coleman del 2008).
La novità? Oggi la Corte sottolinea che pratiche apparentemente neutre – come turni rigidi, orari inflessibili o mancata considerazione delle esigenze familiari – possono configurare discriminazioni indirette, se colpiscono in modo sproporzionato i caregiver.
Il messaggio è chiaro: non basta non discriminare attivamente. Bisogna verificare se le proprie regole organizzative creano ostacoli ingiustificati per chi ha responsabilità di cura.
Il nuovo equilibrio: autonomia datoriale sì, ma motivata
La CGUE non intende sostituirsi all’imprenditore, ma chiede che ogni scelta organizzativa sia proporzionata e giustificata. Se un lavoratore chiede un accomodamento, spetta al datore dimostrare perché non è possibile attuarlo senza un “onere sproporzionato”.
Questo ribalta la prospettiva: l’autonomia organizzativa non è più una presunzione, ma il risultato di un bilanciamento motivato tra esigenze aziendali e diritti individuali.
Cosa devono fare le aziende?
Le due sentenze, lette insieme, indicano una direzione chiara: passare da una logica di conformità formale a una gestione “su misura” del personale. In concreto, le imprese dovrebbero:
- Valutare preventivamente soluzioni personalizzate prima di procedere a licenziamenti per assenze prolungate;
- Documentare con cura le alternative considerate e le ragioni delle scelte operate;
- Introdurre flessibilità organizzativa, soprattutto per chi ha carichi di cura;
- Aggiornare regolamenti interni e policy HR, introducendo procedure trasparenti per la gestione delle richieste di accomodamento, in linea con il dlgs 62/2024.
In conclusione
Le sentenze della CGUE non impongono l’impossibile, ma chiedono sensibilità, dialogo e proattività. In un mercato del lavoro sempre più orientato al benessere e all’inclusione, chi saprà adattarsi per primo non solo eviterà contenziosi, ma migliorerà clima aziendale, produttività e reputazione.

