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Cessione di ramo d’azienda e criteri di selezione del personale: la Corte d’Appello ribadisce i limiti del diritto all’assunzione da parte della società subentrante.

La Corte d’Appello di Roma, con la sentenza n. 181 del Ruolo Generale Affari Contenziosi del 2022, ha rigettato il ricorso di un lavoratore escluso dalla lista di assunzione nell’ambito di una procedura di cessione di ramo d’azienda ex articolo 47, comma 4‑bis, della legge n. 428/1990. Il lavoratore, assente per infortunio e successiva malattia dal 10 ottobre 2018 al 2 settembre 2019, non aveva svolto alcuna attività lavorativa nel periodo di riferimento stabilito dall’accordo sindacale (1° gennaio – 31 luglio 2019), nel quale era richiesto lo “svolgimento effettivo della mansione prevalente” per l’inserimento nelle liste di trasferimento. La Corte ha confermato che l’esclusione non derivava da un’omissione nella trasmissione degli elenchi né da un comportamento discriminatorio, bensì dall’assenza del requisito oggettivo previsto dall’accordo collettivo, legittimamente concordato tra cedente, cessionarie e rappresentanze sindacali. È stato altresì escluso il diritto al riconoscimento dell’indennità di trasporto, poiché legata esclusivamente allo svolgimento di attività specifiche presso il “reparto Saratoga” e cessante in caso di trasferimento ad altra sede o mansione. Infine, la domanda risarcitoria ex articolo 2043 del codice civile è stata rigettata: la mancata assunzione non costituiva illecito, ma conseguenza diretta dell’assenza del presupposto sostanziale richiesto, e le pretese retributive relative al periodo successivo alla dichiarazione di insolvenza della società risultavano infondate. La Corte ha quindi rigettato l’appello e compensato le spese tra le parti costituite.

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Mancato rinnovo del contratto a termine e tutela risarcitoria: i limiti della “perdita di chance” alla luce della sentenza della Corte d’Appello di Roma n. 251/2025

La Corte d’Appello di Roma ha riformato la sentenza di primo grado che aveva condannato il datore di lavoro al risarcimento di tre mensilità per “perdita di chance” di stabilizzazione del rapporto, ritenendo che il mancato rinnovo di un contratto a termine non lede alcun diritto soggettivo del lavoratore, ma frustra al più una mera aspettativa di fatto, priva di rilevanza giuridica. Richiamando la giurisprudenza della Corte di Cassazione (Sez. Un., n. 36197/2023; Sez. L., n. 11622/2024), il Collegio ha precisato che la trasformazione del rapporto a tempo determinato in rapporto a tempo indeterminato non costituisce un interesse giuridicamente protetto, e che neppure la figura del danno da “perdita di chance” è applicabile in assenza di una seria e apprezzabile probabilità di conseguire un bene della vita tutelato dall’ordinamento. Inoltre, la Corte ha evidenziato la mancanza di prova specifica del danno, essendo la domanda risarcitoria formulata in termini generici (“risarcimento di tutti i danni subiti e subendi”), e ha ritenuto irrilevanti le motivazioni sottese alla decisione datoriale di non rinnovare il contratto, in quanto la scelta di non prorogare un rapporto a termine è legittima per sua natura, salvo la prova di un illecito autonomo (discriminatorio o ritorsivo), che nel caso di specie non era emersa. Di conseguenza, le domande del lavoratore sono state interamente respinte, con condanna alle spese di entrambi i gradi.

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Errori in busta paga e inquadramento contrattuale: quando un dettaglio diventa una mina per l’azienda

Una busta paga sbagliata non è mai “solo un errore di calcolo”. Può nascondere un inquadramento contrattuale non conforme alle mansioni effettivamente svolte, con conseguenze legali ed economiche che si accumulano nel tempo — fino a dieci anni per le ferie non godute, cinque per le differenze retributive. Ma il vero punto di svolta arriva dalla giurisprudenza recente: con l’ordinanza n. 11771/2025, la Corte di Cassazione ha chiarito che il superminimo non è automaticamente assorbibile nel passaggio di livello, a meno che la clausola contrattuale non lo preveda espressamente. Questo perché la progressione legata alle mansioni e all’anzianità di servizio non equivale a un semplice aumento dei minimi tabellari. Per imprese e professionisti, la lezione è chiara: la precisione contrattuale oggi è l’unica vera forma di protezione domani.

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Oltre le sei ore di lavoro: il buono pasto diventa un diritto soggettivo, non un benefit discrezionale

Quando la prestazione lavorativa supera le sei ore, il diritto al pasto – e, in mancanza di mensa, al buono pasto sostitutivo – non è più una concessione aziendale, ma un obbligo di legge. Lo ha ribadito con forza la Corte di Cassazione nell’ordinanza n. 25525/2025, riconoscendo tale diritto anche ai lavoratori turnisti del settore sanitario. La norma di riferimento è l’articolo 8 del D.L. 66/2003, che prevede un intervallo per la consumazione del pasto ogni volta che l’orario eccede le sei ore, senza distinzioni tra tipologie di contratto o orari. Anche i dipendenti part-time possono beneficiarne nei giorni in cui lavorano, anche senza pausa pranzo formalizzata, purché la prestazione effettiva superi la soglia legale. Il buono pasto, dunque, cessa di essere un semplice benefit per diventare uno strumento di attuazione di un diritto fondamentale del lavoratore.

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Quando lo stress diventa malattia professionale: diritti, tutele e tempi per agire

Quando lo stress diventa malattia professionale, l’INAIL deve intervenire — anche senza prove di mobbing e senza fare causa all’azienda. Una recente sentenza del Tribunale di Reggio Emilia (11 giugno 2025) ha ribadito un principio fondamentale: non conta l’intenzione del datore di lavoro, ma il nesso tra patologia e ambiente lavorativo. Se ansia, depressione o disturbi psichici derivano da un clima tossico — fatto di umiliazioni, turni massacranti, isolamento — e una perizia medico-legale lo accerta, l’INAIL è obbligato a riconoscere la malattia professionale e a indennizzare. Grazie alla Corte Costituzionale e al D.Lgs. 38/2000, la tutela copre anche le malattie non tabellate, purché dimostrato il legame con il lavoro. Perché la dignità sul posto di lavoro è una forma di sicurezza.

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Registrazione occulta tra colleghi: quando non basta dire “lo faccio per difendermi”

La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 20487/2025 del 21 luglio 2025, ha chiarito che la registrazione occulta di una conversazione tra colleghi nei locali aziendali non è mai giustificata dal “diritto di difesa” se non sussistono requisiti stringenti di necessità, pertinenza, proporzionalità e tempestività rispetto a un procedimento giudiziario pendente o imminente. Nel caso esaminato, la registrazione – effettuata nel 2016, di durata prossima alle due ore e priva di collegamento con alcun contenzioso in atto o ragionevolmente prevedibile – è stata ritenuta meramente esplorativa, dunque illecita e disciplinarmente sanzionabile per violazione degli obblighi di fedeltà e riservatezza ex art. 2105 c.c. La Cassazione ribadisce che l’onere di provare la strumentalità difensiva grava sul lavoratore e che il “diritto di difesa” non legittima raccolte indiscriminate o preventive di dati altrui. In assenza di un nesso concreto con un diritto da tutelare, prevale la tutela della privacy interna al luogo di lavoro.

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Dipendente che beve al lavoro: cosa può fare il datore di lavoro?

Quando un datore di lavoro sospetta che un dipendente beva alcolici durante l’orario di lavoro, non può agire d’impulso, ma deve rispettare precisi limiti legali. L’uso di telecamere per controllarlo è vietato dall’articolo 4 dello Statuto dei Lavoratori (legge 300/1970), salvo casi eccezionali con autorizzazione sindacale o dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro. Tuttavia, in presenza di fondati sospetti, la Corte di Cassazione (sentenza n. 18168/2023) ritiene legittimo ricorrere a un investigatore privato per accertare comportamenti illeciti, purché l’incarico sia mirato e specifico. In alternativa, il datore può attivare il medico competente, previsto dal Dlgs 81/2008 e dalla legge 125/2001, per verificare l’idoneità del lavoratore, soprattutto se svolge mansioni a rischio come il cuoco. Se le prove confermano l’abuso di alcol, il datore può avviare un procedimento disciplinare e, nei casi più gravi, procedere al licenziamento per giusta causa, come riconosciuto dalla Corte d’Appello di Venezia (n. 83/2024) e dal Tribunale di Grosseto (n. 44/2025).

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Parità genitoriale: diritti NASpI e dimissioni senza preavviso

Il padre lavoratore dipendente del settore privato che si dimette entro il primo anno di vita del figlio gode degli stessi diritti riconosciuti alla madre: non è tenuto al preavviso e ha diritto all’indennità NASpI, purché sussistano i requisiti contributivi (13 settimane negli ultimi 4 anni e 30 giornate di lavoro negli ultimi 12 mesi). Tale equiparazione è espressamente prevista dall’art. 55, comma 1, del D.Lgs. 151/2001, che stabilisce che “la lavoratrice e il lavoratore che si dimettono nel periodo per cui è previsto, a norma dell’articolo 54, il divieto di licenziamento, non sono tenuti al preavviso” e hanno diritto “alle indennità previste [...] per il caso di licenziamento”. L’art. 54, comma 7, estende espressamente tale tutela al padre “fino al compimento di un anno di età del bambino”. La Circolare INPS n. 32/2023 conferma che “in caso di dimissioni volontarie presentate dal papà [...] fino al compimento di un anno di età del bambino, è mantenuto il diritto alle indennità previste in caso di licenziamento (es. all’indennità NASpI)”, senza alcuna distinzione tra settori. Negare tale diritto ai padri – ad esempio escludendo i lavoratori domestici – viola il principio di parità sancito dall’art. 3 della Costituzione e dall’art. 3 del D.Lgs. 151/2001, che vieta “qualsiasi discriminazione [...] in ragione dello stato di [...] paternità”. La giurisprudenza (Cass. n. 11543/2024) ha ribadito che l’INPS “ha detto meno di quanto ha voluto”, escludendo ingiustificatamente alcune categorie, e che tale comportamento configura un’interpretazione formalistica contraria alla ratio della norma: la tutela della genitorialità attiva, indipendentemente dal genere o dal tipo di contratto.

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Vaccino anti-Covid e danni neurologici: il Tribunale di Asti condanna il Ministero a pagare un indennizzo mensile di 3.000 euro

Il Tribunale civile di Asti, con una sentenza del 26 settembre 2025, ha riconosciuto il nesso di causalità tra la vaccinazione anti-Covid con Comirnaty (Pfizer-BioNTech) e una grave forma di mielite trasversa infiammatoria in una donna di 52 anni. A seguito di danni neurologici irreversibili – comparsa pochi mesi dopo la somministrazione del vaccino – il Ministero della Salute è stato condannato a corrisponderle un indennizzo mensile di circa 3.000 euro, come previsto dalla Legge n. 210 del 1992. La decisione, sebbene di primo grado e quindi appellabile, rappresenta un precedente significativo per il riconoscimento di danni neurologici post-vaccinali e ribadisce il diritto alla tutela assistenziale dello Stato, anche in assenza di colpa o difetto del prodotto.

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Licenziamento illegittimo se il datore non valuta l’impatto della modifica dell’orario sul caregiver:

Estratto della sentenza Cassazione Civile, Sez. Lav., 03 luglio 2025, n. 18063 La Cassazione Civile, Sez. Lav., 03 luglio 2025, n. 18063 ha accolto il ricorso di un lavoratore caregiver licenziato dopo aver rifiutato un cambio di orario che gli avrebbe impedito di assistere la moglie disabile, titolare di protezione ai sensi della legge 104/1992. La Corte ha rilevato che il datore di lavoro non aveva adempiuto all’obbligo di repêchage, non avendo valutato la possibilità di ricollocare il dipendente in un altro ruolo con il medesimo orario a ciclo continuo – regime già in uso in azienda e successivamente assegnato a nuovi assunti. Inoltre, la Corte d’appello aveva omesso di esaminare la domanda alternativa di licenziamento discriminatorio, violando il diritto del lavoratore a una tutela effettiva contro discriminazioni legate alla condizione di caregiver. Per questi vizi, la sentenza di legittimità è stata cassata e la causa rinviata.

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La riforma del recupero crediti: quando l’avvocato sostituisce il giudice.

La riforma del recupero crediti introdotta dal DDL 978 prevede che l’avvocato del creditore, e non più il giudice, possa emettere un’intimazione ad adempiere che, se non contestata entro 40 giorni, diventa titolo esecutivo. Questo elimina il controllo preventivo del magistrato previsto oggi dal procedimento monitorio (decreto ingiuntivo), con l’obiettivo di accelerare le procedure, ma solleva forti preoccupazioni sul diritto di difesa dei debitori, soprattutto dei consumatori. Parallelamente, un altro disegno di legge delega interviene sull’esecuzione forzata, introducendo aggiustamenti tecnici per renderla più efficiente: tra le novità, la vendita privata dell’immobile pignorato da parte del debitore (con garanzie), l’abolizione della formula esecutiva, l’anticipazione della nomina del custode, e l’estensione delle norme antiriciclaggio alle vendite esecutive. Si tratta di una riforma più tecnica e meno rivoluzionaria rispetto a quella del DDL 978, ma comunque significativa per la pratica forense. In sintesi: da un lato si semplifica drasticamente l’accesso all’esecuzione forzata; dall’altro si cerca di ottimizzarne lo svolgimento, con attenzione a equilibrio, trasparenza e tempi.

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Il nuovo volto del salario minimo in Italia:

Con questa legge, l’Italia compie un passo storico verso un mercato del lavoro più equo e trasparente. Sebbene la piena operatività del sistema dipenda dai futuri decreti attuativi, la direzione è chiara: nessun lavoratore dovrà più essere pagato al di sotto di un livello minimo dignitoso, stabilito non da logiche di concorrenza al ribasso, ma dal valore del lavoro stesso.

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