Con ordinanza n. 27161 del 21 ottobre 2024, la sezione lavoro della Corte di Cassazione, intervenendo in tema di licenziamento disciplinare, ha affermato che il giudizio di gravità attiene al fatto e si riflette sulla valutazione di proporzionalità della sanzione.
Orbene, la difficoltà di ricondurre al fatto anche il giudizio di proporzionalità fondato sull’art. 2106 c.c. è stata superata dalla Suprema Corte con il consolidarsi di un orientamento favorevole alla considerazione delle clausole generali come uno degli strumenti giuridici di cui la contrattazione collettiva o il codice disciplinare possono avvalersi per tipizzare fattispecie da punire con sanzione conservativa, dando in tal modo maggiore ampiezza di significato al rinvio operato dall’art. 18, comma 4, L. n. 300/1970 alle previsioni della contrattazione collettiva e dei codici disciplinari.
L’interpretazione più restrittiva limitava l’accesso alla tutela c.d. reale (reintegrazione nel posto di lavoro) ai casi in cui la valutazione di proporzionalità, fra sanzione conservativa e fatto contestato, fosse precisamente tipizzata dalla contrattazione collettiva o dal codice disciplinare mediante una specifica ed analitica descrizione delle condotte meritevoli soltanto di una sanzione conservativa (Cass. civ. n. 19578/2019; Cass. civ. n. 13533/2019; Cass. civ. n. 12365/2019), esclusa l’utilizzabilità di clausole generali come la “gravità”.
Ma tale orientamento è stato oggetto di una successiva rimeditazione (Cass. civ. n. 11665/2022), in virtù della quale le fasi dell’accertamento dell’illegittimità del licenziamento e dell’individuazione della tutela applicabile sono distinte.
Pertanto, una volta esclusa la ricorrenza di una giusta causa o di un giustificato motivo soggettivo ed accertata, in tal modo, l’illegittimità del licenziamento, occorre selezionare e individuare la tutela applicabile tra quelle previste dal novellato art. 18, comma 4 e 5, L. n. 300 cit.
A questo riguardo va preliminarmente ribadito sul piano del metodo che la previsione, da parte del contratto collettivo o del codice disciplinare, della sanzione espulsiva non è vincolante per il giudice, poiché il giudizio di gravità e di proporzionalità della condotta rientra nell’attività sussuntiva e valutativa del giudice ex art. 2119 c.c., ossia alla luce della nozione legale di giusta causa (o di giustificato motivo soggettivo), avuto riguardo agli elementi concreti, di natura oggettiva e soggettiva, della fattispecie, sebbene la scala valoriale formulata dalle parti sociali costituisca uno (ma soltanto uno) dei parametri cui occorre fare riferimento per riempire di contenuto la clausola generale di fonte legale, ossia utilizzata dall’art. 2119 c.c. (Cass. civ. n. 16784/2020; Cass. civ. n. 33811/2021).
Viceversa, nell’ipotesi in cui un comportamento del lavoratore, invocato dal datore di lavoro come giusta causa di licenziamento, sia configurato e tipizzato dal contratto collettivo o dal codice disciplinare come infrazione meritevole solo di una sanzione conservativa, il giudice non può discostarsi da tale previsione, che quindi è vincolante, poiché condizione di maggior favore fatta espressamente salva dall’art. 12, L. n. 604/1966, a meno che accerti che le parti abbiano previsto, per i casi di maggiore gravità, la possibilità della sanzione espulsiva (Cass. civ. n. 14811/2020) e ritenga che il fatto concretamente accertato presenti questa connotazione di maggiore gravità.
Dunque il giudice può sussumere la condotta addebitata al lavoratore, e in concreto accertata giudizialmente, anche in quella previsione contrattual collettiva o del codice disciplinare che, con clausola generale ed elastica (articolata in termini di minore o maggiore gravità), punisca l’illecito con sanzione conservativa, senza che detta operazione di interpretazione e sussunzione trasmodi nel giudizio di proporzionalità della sanzione rispetto al fatto contestato (art. 2106 c.c.).
Si tratta, infatti, pur sempre di dare attuazione al principio di proporzionalità come tipizzato dalle parti sociali attraverso la previsione del contratto collettivo oppure dal datore di lavoro mediante il codice disciplinare – cui rinvia l’art. 18, comma 4, L. n. 300/1970 – sebbene tale tipizzazione sia avvenuta mediante lo strumento giuridico delle clausole generali ed elastiche (Cass. civ. n. 107/2024; Cass. civ. n. 20780/2022; Cass. civ. n. 13063/2022).
Questo orientamento – ha concluso la Suprema Corte – si è ormai consolidato e rappresenta il “diritto vivente”, riferito ai licenziamenti regolati dall’art. 18, L. n. 300/1970, come riconosciuto anche dalla Corte Costituzionale (C. Cost. n. 129/2024).