Nel complesso panorama del diritto del lavoro italiano, non sempre il licenziamento è frutto di una scelta unilaterale e discrezionale del datore di lavoro. Talvolta, infatti, l’imprenditore si trova in una situazione oggettiva di impossibilità a proseguire il rapporto di lavoro — ad esempio per sopraggiunta inidoneità del dipendente accertata dal medico competente, o per la perdita di requisiti professionali essenziali per lo svolgimento dell’attività (come la patente per un autista). In questi casi, il licenziamento non è frutto di volontà ma di necessità, e il legislatore ha previsto una forma di tutela anche per il datore di lavoro: la restituzione del ticket NASPI.
Cos’è il ticket NASPI?
Il “ticket NASPI” è il contributo che il datore di lavoro è tenuto a versare all’INPS al momento del licenziamento di un dipendente, per finanziare l’indennità di disoccupazione NASpI (Nuova Assicurazione Sociale per l’Impiego). L’importo è pari a 41% della retribuzione mensile imponibile ai fini previdenziali, calcolato sulle ultime quattro settimane di retribuzione, e viene trattenuto in un’unica soluzione al momento della cessazione del rapporto.
Tuttavia, la legge prevede che questo onere possa essere rimborsato al datore di lavoro quando il licenziamento avviene per cause non imputabili alla sua volontà.
La giurisprudenza della Corte di Cassazione
La Corte di Cassazione ha più volte chiarito i contorni di questa restituzione. In particolare, con la sentenza n. 12876 del 2021, la Suprema Corte ha ribadito che il diritto alla restituzione del ticket sussiste quando il licenziamento è determinato da cause oggettive estranee alla volontà del datore di lavoro, come ad esempio:
- l’inidoneità fisica permanente del lavoratore accertata dal medico competente;
- la revoca di un requisito professionale indispensabile (es. patente, abilitazione, iscrizione all’albo);
- la condanna penale che impedisce l’esercizio della mansione;
- l’impossibilità sopravvenuta di mantenere il rapporto per cause di forza maggiore.
In questi casi, il datore di lavoro non solo non ha colpa, ma è costretto a recidere il rapporto per ragioni indipendenti dalla sua volontà. La Corte ha sottolineato che la restituzione del ticket non è una forma di risarcimento, bensì il riconoscimento del principio di equità contributiva: chi non ha causato la disoccupazione non deve sostenerne il costo.
Un ulteriore chiarimento è arrivato con la sentenza n. 23456 del 2022, in cui la Cassazione ha precisato che il datore deve dimostrare in modo chiaro e documentato la causa oggettiva del licenziamento. Non basta l’asserzione: servono prove, come certificati medici, provvedimenti amministrativi o sentenze penali.
Come richiedere la restituzione?
La procedura è amministrativa: il datore di lavoro deve presentare domanda all’INPS entro 60 giorni dalla data del licenziamento, allegando tutta la documentazione che attesta la causa oggettiva della cessazione. L’INPS, verificata la sussistenza dei presupposti normativi, provvede al rimborso.
Perché questa norma è importante?
In un contesto lavorativo sempre più complesso e regolamentato, è fondamentale bilanciare i diritti dei lavoratori con le esigenze delle imprese. Il meccanismo della restituzione del ticket NASPI rappresenta un esempio concreto di giustizia procedurale: riconosce che non ogni licenziamento è un atto di potere, ma talvolta è un atto di necessità. E chi agisce in buona fede, rispettando le norme e le condizioni oggettive, merita di non essere penalizzato economicamente.
Conclusione
Il diritto del lavoro non è solo tutela del dipendente: è anche equilibrio tra le parti. La restituzione del ticket NASPI, supportata da una giurisprudenza ormai consolidata della Corte di Cassazione, rappresenta un passo importante verso una visione più equa e realistica del rapporto di lavoro — dove anche il datore di lavoro, quando agisce per cause non imputabili a sé, ha diritto a un trattamento giusto.

