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La nozione di «mobbing» – come quella di «straining» – è una nozione di tipo medico-legale che non ha autonoma rilevanza ai fini giuridici.

La nozione di «mobbing» – come quella di «straining» – è una nozione di tipo medico-legale che non ha autonoma rilevanza ai fini giuridici.

visita psichiatrica Con sentenza n. 15957 del 7 giugno 2024, la sezione lavoro della Corte di Cassazione ha ricordato che, per consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, la nozione di mobbing (come quella di straining) è una nozione di tipo medico-legale, che non ha autonoma rilevanza ai fini giuridici e serve soltanto per identificare comportamenti che si pongono in contrasto con l’art. 2087 c.c. e con la normativa in materia di tutela della salute negli ambienti di lavoro (Cass. civ. 19 febbraio 2016, n. 3291; Cass. civ. n. 32257/2019).Secondo gli orientamenti maturati presso la Suprema Corte, è configurabile il mobbing lavorativo ove ricorra l’elemento obiettivo, integrato da una pluralità continuata di comportamenti pregiudizievoli per la persona interni al rapporto di lavoro e quello soggettivo dell’intendimento persecutorio nei confronti della vittima (Cass. civ. 21 maggio 2018, n. 12437; Cass. civ. 10 novembre 2017, n. 26684), a prescindere dalla illegittimità intrinseca di ciascun comportamento, in quanto la concreta connotazione intenzionale colora in senso illecito anche condotte altrimenti astrattamente legittime, il tutto secondo un assetto giuridico pianamente inquadrabile nell’ambito civilistico, ove si consideri che la determinazione intenzionale di un danno alla persona del lavoratore da parte del datore di lavoro o di chi per lui è in re ipsa ragione di violazione dell’art. 2087 c.c. e quindi di responsabilità contrattuale, anche con i maggiori effetti di cui all’art. 1225 c.c. per il caso di dolo;
è configurabile lo straining, quando vi siano comportamenti stressogeni scientemente attuati nei confronti di un dipendente, anche se manchi la pluralità delle azioni vessatorie (Cass. civ. 10 luglio 2018, n. 18164).
In materia di tutela della salute nell’ambiente di lavoro, la Suprema Corte ha inoltre chiarito che un “ambiente lavorativo stressogeno” è configurabile come fatto ingiusto, suscettibile di condurre anche al riesame di tutte le altre condotte datoriali allegate come vessatorie, ancorché apparentemente lecite o solo episodiche, in quanto la tutela del diritto fondamentale della persona del lavoratore trova fonte direttamente nella lettura, costituzionalmente orientata, dell’art. 2087 c.c. (vedi, tra le altre: Cass. civ. 7 febbraio 2023 n. 3692 e nello stesso senso: Cass. civ. nn. 33639/2022, 33428/2022, 31514/2022).
Si è inoltre affermato che per l’applicazione dell’art. 2087 c.c. si deve fare riferimento alla normativa internazionale (soprattutto Convenzioni ONU, OIL e CEDU) e UE e, quindi, alle pronunce delle due Corti europee centrali (CGUE e Corte EDU) e che tale applicazione è caratterizzata dalla necessità di operare un bilanciamento tra il diritto al lavoro e alla salute del dipendente (art. 4 e 32 Cost.) e la libertà di iniziativa economica del datore di lavoro privato (art. 41 Cost.) ovvero per il datore di lavoro pubblico le esigenze organizzative e i limiti di spesa.
L’elemento di base di questa operazione è rappresentato dalla adozione come definizione di salute non quella di “semplice assenza dello stato di malattia o di infermità”, ma quella di “stato di completo benessere fisico, mentale e sociale” originariamente contenuta nel Preambolo della Costituzione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità OMS (oppure World Health Organization, WHO, entrata in vigore il 7 aprile 1948), cui si riferiscono tutte le Carte internazionali in materia − a partire dalla importante Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità − e che è stata espressamente riprodotta nell’art. 2, comma 1, lett. o), D.L.vo 9 aprile 2008, n. 81.

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