Il whistleblowing come diritto di legalità e la sua patologia giuridica
Il whistleblowing, inteso come segnalazione di illeciti nell’ambito di un contesto lavorativo, rappresenta oggi un pilastro fondamentale della compliance democratica e della tutela dell’interesse pubblico. La Direttiva UE 2019/1937, recepita in Italia con il d.lgs. n. 24/2023, ha sancito un sistema articolato di protezioni per i segnalanti, introducendo in particolare un meccanismo di inversione dell’onere della prova e un regime presuntivo di ritorsione per ogni atto pregiudizievole adottato dopo la segnalazione (art. 17, commi 1 e 2). Tuttavia, nonostante il riconoscimento formale del whistleblowing come istituto di garanzia, la prassi giurisprudenziale e amministrativa rivela una paradossale frattura tra riconoscimento del diritto e negazione sostanziale della ritorsione. In altre parole: si riconosce il whistleblowing, ma si nega sistematicamente la sua conseguenza ritorsiva, con effetti devastanti sul piano del danno non patrimoniale. Questa negazione non è esplicita, né scritta in alcun articolo di legge. Essa vive nel silenzio delle motivazioni, nella subordinazione della ritorsione a standard probatori impossibili, nella distinzione artificiosa tra “whistleblowing legittimo” e “lamentele personali”, e nella svalutazione del danno morale. Il risultato è una protezione legale che esiste sulla carta ma si sgretola al primo contatto con la realtà processuale.
L’accertamento ritorsivo e il danno non patrimoniale: un divorzio giurisprudenziale
La normativa vigente prevede espressamente che il danno derivante da ritorsioni debba essere risarcito, anche nella sua dimensione non patrimoniale. L’art. 2087 c.c., richiamato in modo innovativo dalla sentenza n. 951/2025 del Tribunale di Bergamo, impone al datore di lavoro (e all’amministrazione pubblica) il dovere di garantire un ambiente di lavoro non stressogeno, con l’esplicita conseguenza che ogni comportamento vessatorio – isolamento, dequalificazione, umiliazioni, minacce – configura una violazione dell’obbligo di sicurezza. In tal senso, il Tribunale bergamasco ha compiuto un passo storico: ha presunto il danno morale sulla base delle “massime di comune esperienza” (art. 115 c.p.c.), senza richiedere alcuna diagnosi clinica. Nonostante i progressi normativi, ci sono almeno tre questioni critiche che continuano a limitare l’efficacia del whistleblowing. Una di queste è la separazione artificiosa tra whistleblowing e mobbing, che per anni è stata amplificata dalla giurisprudenza. Come evidenziato dalla sentenza di Bergamo, la tutela del whistleblower è stata spesso subordinata al concetto di mobbing, con la necessità di dimostrare uno specifico intento persecutorio. Questo approccio ha ridotto il whistleblowing a un caso particolare di conflittualità relazionale, piuttosto che riconoscerlo come uno strumento chiave per la difesa collettiva della legalità. Anche con l’introduzione del d.lgs. 24/2023, che ha eliminato tale subordinazione, permangono molte difficoltà. Alcuni giudici, inclusi uffici del lavoro, trattano ancora le ritorsioni come episodi di mobbing, richiedendo ai whistleblower prove documentate di sofferenze biologiche. Ciò avviene in particolare quando le segnalazioni riguardano dinamiche interpersonali (ad esempio, “mancanza di autonomia” o “clima ostile”) invece di frodi contabili o atti di corruzione. Questa concezione risulta discriminatoria e priva di fondamento normativo. L’art. 2 del decreto esplicita che possono essere segnalati anche atti o omissioni lesivi dell’integrità dell’organizzazione, pur non costituendo reato. Tuttavia, nell’ambito processuale si tende a sminuire le segnalazioni non prettamente tecniche, finendo per negarne la rilevanza giuridica e l’applicabilità dell’art. 17. Un’altra questione critica riguarda l’interpretazione distorta del principio di “buona fede”. La normativa esonera il whistleblower da responsabilità se agisce in buona fede, anche nel caso in cui la segnalazione risulti infondata (art. 16, d.lgs. 24/2023). Tuttavia, spesso questa tutela viene invertita: se il lavoratore non riesce a dimostrare in modo inequivocabile la violazione, viene considerato in malafede e perdono valore le sue denunce contro eventuali ritorsioni subite. Un caso emblematico è riportato sulla sentenza 1680/2025 del Tribunale di Milano. In questo caso, il tribunale ha ritenuto che il whistleblower avesse agito per “interessi personali” invece di segnalare violazioni dannose per gli interessi aziendali, ignorando che il lavoratore aveva denunciato carenze organizzative significative, ostilità professionale e disfunzioni nella gestione dell’area commerciale. Tali elementi rientravano pienamente nell’ambito previsto dall’art. 2 del decreto. Nonostante ciò, la sentenza è stata criticata per aver minimizzato queste segnalazioni solo perché prive di un contenuto “tecnico” o “esterno”. Questa interpretazione restrittiva del whistleblowing rischia di svuotare il suo significato, riducendolo a un mero strumento burocratico e facendo perdere quella dimensione essenziale di partecipazione attiva alla trasparenza e alla legalità delle organizzazioni. Il D.Lgs. 24/2023 mira a tutelare non solo i segnalanti, ma anche coloro che li supportano, come facilitatori, familiari, colleghi ed enti collegati, come specificato dagli art. 3, commi 3 e 4. Tuttavia, ad oggi, nessuna sentenza giudiziaria ha riconosciuto casi di ritorsione indiretta. Il sistema giudiziario italiano, ancora ancorato a una visione individualistica relativa al danno, dimostra difficoltà nell’identificare dinamiche di pressione collettiva o fenomeni di ostracismo sociale che possono colpire l’intero gruppo legato a chi segnala irregolarità. Situazioni come isolamento professionale, perdita di credibilità all’interno dell’organizzazione ed esclusione dai progetti strategici, spesso utilizzate come forme di ritorsione, vengono generalmente classificate non come atti illeciti, ma come semplici conseguenze di conflitti interni. Questo approccio risulta però in netto contrasto con quanto stabilito dalla Convenzione ILO n. 190 del 2019, che definisce le ritorsioni una forma di violenza nel contesto lavorativo da combattere attraverso politiche improntate alla “tolleranza zero”.
Il problema mai emerso: la funzione dissuasiva mancante
La sentenza di Bergamo ha riconosciuto un risarcimento di 25.000 euro per tre anni di vessazioni. Un importo che, pur rappresentando un passo avanti, non ha alcuna funzione dissuasiva. tale somma è “ben distante dagli standard UE” e “non rende giustizia” a chi ha subìto conseguenze personali gravissime. Il punto non è solo quantitativo: è qualitativo. Il nostro sistema risarcitorio non ha ancora interiorizzato che il danno da ritorsione è strutturale, non episodico. Colpisce la dignità, la libertà di espressione, la partecipazione democratica nel luogo di lavoro. Eppure, i tribunali continuano a valutarlo come un “danno morale ordinario”, assimilandolo a una qualsiasi offesa alla reputazione. Inoltre, nessuna sentenza ha mai applicato le sanzioni amministrative previste dall’art. 21 del d.lgs. 24/2023, che prevedono multe fino a 50.000 euro per le ritorsioni e per l’omissione dei canali di segnalazione. Ciò dimostra che l’ANAC, pur essendo l’autorità competente, non sta ancora svolgendo il ruolo di garante attivo che la legge le attribuisce.
Il ruolo dei periti psicologici: un campo minato
Secondo i materiali del Dr. Harald Ege – tra i primi a introdurre in Italia la perizia psicologica nel mobbing – il danno non patrimoniale richiede una valutazione multidimensionale, che consideri non solo l’impatto clinico, ma anche la lesione all’identità professionale, la perdita di senso del lavoro e la distruzione del progetto di vita. Tuttavia, l’attuale sistema giuridico richiede ancora una “prova clinica” per il risarcimento. Nonostante la sentenza di Bergamo abbia affermato il principio della presunzione del danno morale, molti giudici continuano a esigere una certificazione medica per riconoscere il pregiudizio. Questo crea una discriminazione di fatto: solo chi può permettersi una perizia psicologica potrà vedersi riconosciuto il danno. Inoltre, le perizie vengono spesso utilizzate non per valutare il danno, ma per sminuire la credibilità del segnalante, etichettandolo come “ipersensibile”, “paranoico” o “instabile emotivamente”. Questo approccio è in netto contrasto con l’art. 17, che prescinde dalla fondatezza della segnalazione e si concentra sull’esercizio del diritto.
Oltre il riconoscimento formale
Il whistleblowing in Italia vive una doppia esistenza: da un lato, è un diritto rafforzato, europeo, moderno; dall’altro, è un’esperienza di solitudine, isolamento e punizione. La legge ha fatto passi da gigante, ma la cultura giuridica – sia dei giudici che dei datori di lavoro – non ha ancora interiorizzato che proteggere il whistleblower significa proteggere la democrazia stessa. I problemi evidenziati e denunciati includono vari aspetti critici: la subordinazione del whistleblowing al mobbing, la negazione dell’esistenza di ritorsioni quando le segnalazioni riguardano dinamiche organizzative anziché aspetti “tecnici”, l’assenza di riconoscimento delle ritorsioni indirette, la mancanza di sanzioni realmente dissuasive e il limitato ruolo attivo dell’ANAC, oltre all’uso distorto delle perizie psicologiche. Fino a quando queste problematiche non saranno affrontate, il whistleblowing rischia di rimanere un diritto puramente teorico, privo di una reale protezione concreta. Chi ha il coraggio di denunciare continuerà a subire conseguenze sproporzionate, non a causa di lacune legislative, ma per via di prassi tolleranti verso comportamenti ritorsivi. Non si può infatti pretendere dai lavoratori il coraggio di segnalare illeciti senza garantire, al contempo, risposte e misure effettivamente dissuasive, come rilevato anche nella sentenza n. 951/2025 del Tribunale di Bergamo.
La strada è tracciata. Ora serve coraggio anche da parte del sistema giuridico.

