orte di cassazione civile, sez. lav., ord., 19 dicembre 2023 n. 35527
Il Tribunale di Arezzo, sia in fase sommaria che di merito, in accoglimento della domanda proposta da A.A. nei confronti del Fallimento La (Omissis), ha dichiarato la nullità del licenziamento T.U. n. 151 del 2001, ex art. 54 e ha condannato la Curatela alla reintegrazione della originaria ricorrente nel posto di lavoro, dichiarando altresì il diritto di quest’ultima ad una indennità commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto dal licenziamento alla reintegra, nonchè la improcedibilità delle relative domande di condanna a carico della stessa Curatela.
La Corte di appello di Firenze, con la sentenza n. 698/2019, ha confermato la suddetta pronuncia.
La azionata pretesa era fondata sul fatto che la A.A., dipendente della Cooperativa con contratto a tempo indeterminato dal 2 gennaio 2015, con qualifica di impiegata ed inquadramento nel livello 8 CCNL Edilizia Cooperative, era stata licenziata con lettera del (Omissis) dalla Curatela – essendo la Cooperativa stata dichiarata fallita con sentenza del (Omissis)- dopo essere stata in congedo per maternità obbligatoria fino al (Omissis) per avere partorito il figlio B.B. il (Omissis); la lavoratrice aveva impugnato il licenziamento con lettera del (Omissis), evidenziando che la risoluzione del rapporto era nulla per essere avvenuta entro l’anno della nascita del figlio e aveva depositato istanza di ammissione al passivo fallimentare il (Omissis) chiedendo di essere ammessa al privilegio e in prededuzione per crediti retributivi vari oltre che per la indennità di licenziamento.
I giudici di seconde cure hanno rilevato che il ricorso di lavoro, proposto nel gennaio del 2018, non era precluso dalla domanda di insinuazione allo stato passivo avendo la prima azione natura costitutiva su diritti non patrimoniali e avendo la seconda ad oggetto mere pretese economiche; hanno poi evidenziato che, dalla prova orale e documentale espletata, non era emerso che si fosse verificata la cessazione dell’attività di impresa per cui era ravvisabile la violazione del divieto legale di licenziamento della lavoratrice madre nel primo anno di vita del figlio.
Avverso la sentenza di secondo grado il Fallimento (Omissis) ha proposto ricorso per cassazione affidato ad un unico motivo, cui ha resistito con controricorso A.A..
Con l’unico articolato si deduce che, diversamente da quanto ritenuto dalla Corte di appello, l’attività di impresa doveva intendersi cessata nel momento in cui la sua prosecuzione non era stata autorizzata, ai sensi della L.Fall., dal Tribunale o dal giudice delegato; pertanto, nel caso di specie, non essendo stato autorizzato l’esercizio provvisorio, nè avanzata o autorizzata alcuna proposta di prosecuzione dell’attività, risultavano poste in essere, come emergeva dal programma di liquidazione del 12.2.2008, dal Curatore solo delle iniziative di tipo conservativo per cui doveva ritenersi che, con la dichiarazione del fallimento, era venuta meno l’azienda in quanto tale e, al momento del licenziamento, l’attività aziendale era da considerarsi definitivamente cessata.
La questione di diritto che viene sottoposta al Collegio riguarda l’interpretazione del concetto giuridico di “cessazione dell’attività dell’azienda” cui è addetta una lavoratrice madre, prevista dal D.l.vo n. 151 del 2001, art. 54, comma 3, lett. b), declinata in relazione alla nozione di esercizio provvisorio dell’impresa L.Fall., ex art. 104, commi 1 e 2.
Il problema, nel suo inquadramento giuridico, è chiaro: si chiede se, in ipotesi di una impresa, in cui l’esercizio provvisorio non sia stato disposto nè con la sentenza dichiarativa del fallimento, nè successivamente autorizzato dal giudice delegato, in un contesto in cui dopo il fallimento era stato dimostrato che le attività di liquidazione non erano iniziate e che, invece, erano in corso attività conservative in funzione di trasferimento a terzi (motivo per il quale era in corso una selezione del personale da conservare in servizio), l’azienda possa o meno considerarsi cessata ai fini della operatività della deroga al divieto di licenziamento di cui al D.l.vo n. 151 del 2001, art. 54, comma 3, lett. b).
In altri termini, relativamente al concetto di cessazione dell’attività di azienda, per la tutela delle lavoratrici madri, il quesito cui occorre dare una risposta è relativo al fatto se debba prevalere una concezione sostanziale (naturalistica) o formale (giuridica) dell’evento “cessazione”: infatti, ai sensi della disposizione di cui alla L.Fall., art. 104, con la sentenza dichiarativa di fallimento si ha una cessazione formale dell’attività, salvo il suo esercizio provvisorio autorizzato in presenza di particolari presupposti; D.l.vo n. 151 del 2001, art. 54, comma 3, lett. b), fa riferimento, invece, unicamente all’avvenimento della “cessazione”.
Per la soluzione della questione, è opportuno evidenziare alcuni principi riguardanti la ratio, la natura giuridica ed il contenuto dell’art. 54 citato, richiamati dalla dottrina e dalla giurisprudenza.
Il legislatore ha, dunque, sempre posto attenzione al fattore di rischio della maternità (e dello stato di gravidanza), che oggi trova una sua disciplina generale anche nel Codice delle pari opportunità, come riformato dal D.l.vo 25 gennaio 2010, n. 5, il quale, nel recepire la Direttiva 2006/54/CE, relativa al principio di pari opportunità e della parità di trattamento fra uomini e donne in materia di occupazione ed impiego, ha provveduto ad una parziale modifica del vigente Codice.
Nella giurisprudenza di legittimità, è stato, al riguardo, precisato che la disposizione di cui all’art. 54 predetto, il quale prevede limiti precisi e circoscritti per la deroga al generale divieto di licenziamento della lavoratrice madre dall’inizio del periodo di gestazione fino al compimento di un anno di età del bambino, in considerazione del fatto che l’estinzione del rapporto si presenta come evento straordinario o necessitato, non può essere interpretata in senso estensivo (Cass. n. 13861/2021).
Inoltre, è stato affermato che la deroga al divieto di licenziamento dell’art. 54 citato, dall’inizio della gestazione fino al compimento dell’età di un anno del bambino, opera solo in caso di cessazione dell’intera attività aziendale, sicchè, trattandosi di fattispecie normativa di stretta interpretazione, essa non può essere applicata in via estensiva o analogica alle ipotesi di cessazione dell’attività di un singolo reparto della azienda, ancorchè dotato di autonomia funzionale (Cass. n. 22720/2017; Cass. n. 14515/2018).
Per la non applicabilità del divieto devono, infine, ricorrere due condizioni, cioè che il datore di lavoro sia una azienda e che vi sia cessazione dell’attività (cfr. Cass. n. 10391/2005 in motivazione); la prova incombe sul datore di lavoro (Cass. n. 5221/1996).
Alla luce di tale quadro dogmatico-giurisprudenziale ritiene, pertanto, questo Collegio che, del concetto di cessazione dell’attività disciplinato dall’art. 54, debba darsi una lettura rigorosa, nel senso che deve essere esclusa, dal suo perimetro operativo, ogni possibilità che comporti, in qualche modo, la continuazione o la persistenza dell’impresa, a qualsiasi titolo essa avvenga, avvalorando, quindi, un profilo sostanziale e non formale del fenomeno “cessazione”.
Del resto, una lettura della norma che privilegi la tutela dei diritti della lavoratrice madre rispetto ai diritti patrimoniali, sottesi in qualche modo alla salvaguardia della par condicio creditorum di cui alla legge fallimentare, è conforme al disposto dell’art. 37 Cost., che riconosce, nelle condizioni di lavoro, una speciale adeguata protezione alla madre e al bambino per l’adempimento della essenziale funzione familiare.
Venendo al caso in esame, atteso che la Corte territoriale aveva accertato che, sia al momento della dichiarazione di fallimento che successivamente ad essa ((Omissis)), erano in corso attività conservative dell’impresa e non di sua liquidazione, la statuizione circa la ritenuta mancata cessazione dell’attività aziendale, operata dai giudici di seconde cure, rilevante ai fini del D.l.vo n. 151 del 2001, art. 54, comma 3, lett. b), è condivisibile e corretta in punto di diritto, con riguardo ai principi sopra precisati.
Fonte: Foroplus
Riferimenti normativi:
Art. D.L.VO del 2001 n. 151 Art. 360 C.P.C. Art. L. del 24 dicembre 2012 n. 228 Art. D.L.VO del 2011 n. 151 Art. 4 COST. Art. 3 COST. Art. D.L.VO del 25 gennaio 2010 n. 5