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Legge 104 e Legge 106/2025: cosa cambia davvero dal 2026 per i lavoratori con disabilità?

Dal 1° gennaio 2026 entra in vigore la Legge 106/2025, che affianca la storica Legge 104/1992 introducendo nuove tutele per i lavoratori con disabilità o affetti da patologie gravi. Tra le principali novità: 10 ore annue aggiuntive di permesso retribuito per visite e terapie, un congedo fino a 24 mesi non retribuito (con conservazione del posto di lavoro ma senza accredito contributivo), e il diritto prioritario allo smart working, se compatibile con la mansione e in assenza di “esigenze organizzative contrarie”. Per la prima volta, anche i lavoratori autonomi potranno sospendere l’attività fino a 300 giorni in caso di malattia grave, mantenendo attiva la posizione previdenziale. Nonostante i passi avanti, la mancata retribuzione del congedo lungo e l’ampia discrezionalità riconosciuta ai datori di lavoro rischiano di limitare l’effettività di queste nuove tutele.

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Lavoratori fragili e la Legge 106/2025: diritti sulla carta, ma senza sostegno economico.

La Legge 106 del 18 luglio 2025 introduce nuove tutele per i lavoratori fragili – persone con invalidità ≥74% o affette da patologie oncologiche o croniche – a partire dal 1° gennaio 2026. Tra le novità: 10 ore aggiuntive all’anno di permessi retribuiti e un congedo straordinario fino a 24 mesi per curarsi, con conservazione del posto di lavoro. Tuttavia, il congedo non è retribuito, non matura anzianità né contribuzione previdenziale (salvo versamento volontario), rendendo il diritto inaccessibile per chi non ha risorse economiche. Lo smart working al rientro è previsto “in via prioritaria”, ma subordinato alle esigenze organizzative dell’azienda, lasciando ampio spazio alla discrezionalità datoriale. Unica nota positiva: per la prima volta, anche i lavoratori autonomi potranno sospendere l’attività fino a 300 giorni mantenendo la posizione previdenziale. La legge, pur riconoscendo formalmente i bisogni dei lavoratori fragili, rischia di offrire tutele solo sulla carta, senza sostegno economico concreto.

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Congedo per Partite IVA e Professionisti: la Legge 106 apre una nuova era di tutele

La Legge 106, in vigore dal 1° gennaio 2026, introduce per la prima volta un congedo speciale per partite IVA e professionisti: «La “Legge 106” prevede che, a partire dal 2026, professionisti e lavoratori autonomi potranno sospendere l’attività per un massimo di 300 giorni all’anno». La norma estende alcune tutele della Legge 104 anche ai lavoratori autonomi che svolgono attività continuativa per un committente, garantendo il mantenimento della posizione previdenziale durante la sospensione. Per i dipendenti, invece, è previsto un congedo fino a 24 mesi con conservazione del posto, ma «durante questo congedo, il lavoratore non riceverà alcuna retribuzione, né contributi, né Tfr».

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Quando lo Stato può pignorare la tua unica casa: la sentenza che ha cambiato le regole

Una recente sentenza della Corte di Cassazione ha ribaltato la convinzione diffusa che l’unica casa non possa mai essere pignorata per debiti fiscali. Pur restando valida la norma che tutela l’abitazione principale (art. 76 del Dpr 602/1973), la Cassazione ha chiarito che questa protezione non è assoluta, ma va bilanciata con l’interesse dello Stato al recupero del credito erariale. Di conseguenza, in presenza di debiti tributari ingenti e in assenza di altri beni aggredibili, il fisco può ottenere il pignoramento dell’unica abitazione, anche se non di lusso. La decisione spetta al giudice, che deve valutare caso per caso se l’esecuzione forzata rispetta il principio di proporzionalità e non lede il diritto alla dignità abitativa.

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Cessione di ramo d’azienda e criteri di selezione del personale: la Corte d’Appello ribadisce i limiti del diritto all’assunzione da parte della società subentrante.

La Corte d’Appello di Roma, con la sentenza n. 181 del Ruolo Generale Affari Contenziosi del 2022, ha rigettato il ricorso di un lavoratore escluso dalla lista di assunzione nell’ambito di una procedura di cessione di ramo d’azienda ex articolo 47, comma 4‑bis, della legge n. 428/1990. Il lavoratore, assente per infortunio e successiva malattia dal 10 ottobre 2018 al 2 settembre 2019, non aveva svolto alcuna attività lavorativa nel periodo di riferimento stabilito dall’accordo sindacale (1° gennaio – 31 luglio 2019), nel quale era richiesto lo “svolgimento effettivo della mansione prevalente” per l’inserimento nelle liste di trasferimento. La Corte ha confermato che l’esclusione non derivava da un’omissione nella trasmissione degli elenchi né da un comportamento discriminatorio, bensì dall’assenza del requisito oggettivo previsto dall’accordo collettivo, legittimamente concordato tra cedente, cessionarie e rappresentanze sindacali. È stato altresì escluso il diritto al riconoscimento dell’indennità di trasporto, poiché legata esclusivamente allo svolgimento di attività specifiche presso il “reparto Saratoga” e cessante in caso di trasferimento ad altra sede o mansione. Infine, la domanda risarcitoria ex articolo 2043 del codice civile è stata rigettata: la mancata assunzione non costituiva illecito, ma conseguenza diretta dell’assenza del presupposto sostanziale richiesto, e le pretese retributive relative al periodo successivo alla dichiarazione di insolvenza della società risultavano infondate. La Corte ha quindi rigettato l’appello e compensato le spese tra le parti costituite.

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Mancato rinnovo del contratto a termine e tutela risarcitoria: i limiti della “perdita di chance” alla luce della sentenza della Corte d’Appello di Roma n. 251/2025

La Corte d’Appello di Roma ha riformato la sentenza di primo grado che aveva condannato il datore di lavoro al risarcimento di tre mensilità per “perdita di chance” di stabilizzazione del rapporto, ritenendo che il mancato rinnovo di un contratto a termine non lede alcun diritto soggettivo del lavoratore, ma frustra al più una mera aspettativa di fatto, priva di rilevanza giuridica. Richiamando la giurisprudenza della Corte di Cassazione (Sez. Un., n. 36197/2023; Sez. L., n. 11622/2024), il Collegio ha precisato che la trasformazione del rapporto a tempo determinato in rapporto a tempo indeterminato non costituisce un interesse giuridicamente protetto, e che neppure la figura del danno da “perdita di chance” è applicabile in assenza di una seria e apprezzabile probabilità di conseguire un bene della vita tutelato dall’ordinamento. Inoltre, la Corte ha evidenziato la mancanza di prova specifica del danno, essendo la domanda risarcitoria formulata in termini generici (“risarcimento di tutti i danni subiti e subendi”), e ha ritenuto irrilevanti le motivazioni sottese alla decisione datoriale di non rinnovare il contratto, in quanto la scelta di non prorogare un rapporto a termine è legittima per sua natura, salvo la prova di un illecito autonomo (discriminatorio o ritorsivo), che nel caso di specie non era emersa. Di conseguenza, le domande del lavoratore sono state interamente respinte, con condanna alle spese di entrambi i gradi.

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Quando il figlio inizia a lavorare, finisce anche il diritto alla casa familiare? La Cassazione traccia il confine tra mantenimento e autonomia

Con l’ordinanza n. 25535 del 17 settembre 2025, la Corte di Cassazione ha ribadito che l’obbligo di mantenimento nei confronti del figlio maggiorenne cessa al raggiungimento della sua indipendenza economica, accertata in concreto — ad esempio — con l’inserimento nel mondo del lavoro. Una volta venuti meno i presupposti del mantenimento, decade anche il diritto all’assegnazione della casa familiare. Eventuali successivi momenti di difficoltà economica non riattivano l’obbligo di mantenimento, ma al più possono far sorgere un più limitato obbligo alimentare, subordinato a uno stato di bisogno effettivo.

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Errori in busta paga e inquadramento contrattuale: quando un dettaglio diventa una mina per l’azienda

Una busta paga sbagliata non è mai “solo un errore di calcolo”. Può nascondere un inquadramento contrattuale non conforme alle mansioni effettivamente svolte, con conseguenze legali ed economiche che si accumulano nel tempo — fino a dieci anni per le ferie non godute, cinque per le differenze retributive. Ma il vero punto di svolta arriva dalla giurisprudenza recente: con l’ordinanza n. 11771/2025, la Corte di Cassazione ha chiarito che il superminimo non è automaticamente assorbibile nel passaggio di livello, a meno che la clausola contrattuale non lo preveda espressamente. Questo perché la progressione legata alle mansioni e all’anzianità di servizio non equivale a un semplice aumento dei minimi tabellari. Per imprese e professionisti, la lezione è chiara: la precisione contrattuale oggi è l’unica vera forma di protezione domani.

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Servitù di passaggio non esercitata per 32 anni: estinzione per prescrizione e illegittimità delle pretese tardive

Una servitù di passaggio costituita con atto notarile nel 1992, ma mai esercitata per 32 anni, si estingue per prescrizione ai sensi dell’art. 1073 del Codice Civile, che dispone: “La servitù si estingue per prescrizione quando non se ne usa per vent’anni”. La giurisprudenza della Corte di Cassazione (Sez. II, n. 13218/2016; n. 23578/2013) chiarisce che il decorso del termine prescrizionale inizia dal momento in cui la servitù avrebbe potuto essere esercitata e che la mera trascrizione notarile non impedisce l’estinzione del diritto. Anche se il titolare del fondo dominante avesse inviato occasionali raccomandate per “ricordare” l’esistenza della servitù, la dottrina e la giurisprudenza concordano nel ritenere che tali atti stragiudiziali non sono sufficienti a interrompere la prescrizione, a meno che non manifestino un reale e concreto interesse all’esercizio del diritto — cosa difficilmente ravvisabile dopo decenni di completo inutilizzo. Pertanto, la pretesa avanzata nel 2024 di attivare una servitù mai utilizzata è giuridicamente infondata, e il proprietario del fondo servente può legittimamente opporsi a qualsiasi richiesta di passaggio o allaccio fognario, nonché bloccare eventuali lavori intrusivi.

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Oltre le sei ore di lavoro: il buono pasto diventa un diritto soggettivo, non un benefit discrezionale

Quando la prestazione lavorativa supera le sei ore, il diritto al pasto – e, in mancanza di mensa, al buono pasto sostitutivo – non è più una concessione aziendale, ma un obbligo di legge. Lo ha ribadito con forza la Corte di Cassazione nell’ordinanza n. 25525/2025, riconoscendo tale diritto anche ai lavoratori turnisti del settore sanitario. La norma di riferimento è l’articolo 8 del D.L. 66/2003, che prevede un intervallo per la consumazione del pasto ogni volta che l’orario eccede le sei ore, senza distinzioni tra tipologie di contratto o orari. Anche i dipendenti part-time possono beneficiarne nei giorni in cui lavorano, anche senza pausa pranzo formalizzata, purché la prestazione effettiva superi la soglia legale. Il buono pasto, dunque, cessa di essere un semplice benefit per diventare uno strumento di attuazione di un diritto fondamentale del lavoratore.

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Quando lo stress diventa malattia professionale: diritti, tutele e tempi per agire

Quando lo stress diventa malattia professionale, l’INAIL deve intervenire — anche senza prove di mobbing e senza fare causa all’azienda. Una recente sentenza del Tribunale di Reggio Emilia (11 giugno 2025) ha ribadito un principio fondamentale: non conta l’intenzione del datore di lavoro, ma il nesso tra patologia e ambiente lavorativo. Se ansia, depressione o disturbi psichici derivano da un clima tossico — fatto di umiliazioni, turni massacranti, isolamento — e una perizia medico-legale lo accerta, l’INAIL è obbligato a riconoscere la malattia professionale e a indennizzare. Grazie alla Corte Costituzionale e al D.Lgs. 38/2000, la tutela copre anche le malattie non tabellate, purché dimostrato il legame con il lavoro. Perché la dignità sul posto di lavoro è una forma di sicurezza.

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Registrazione occulta tra colleghi: quando non basta dire “lo faccio per difendermi”

La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 20487/2025 del 21 luglio 2025, ha chiarito che la registrazione occulta di una conversazione tra colleghi nei locali aziendali non è mai giustificata dal “diritto di difesa” se non sussistono requisiti stringenti di necessità, pertinenza, proporzionalità e tempestività rispetto a un procedimento giudiziario pendente o imminente. Nel caso esaminato, la registrazione – effettuata nel 2016, di durata prossima alle due ore e priva di collegamento con alcun contenzioso in atto o ragionevolmente prevedibile – è stata ritenuta meramente esplorativa, dunque illecita e disciplinarmente sanzionabile per violazione degli obblighi di fedeltà e riservatezza ex art. 2105 c.c. La Cassazione ribadisce che l’onere di provare la strumentalità difensiva grava sul lavoratore e che il “diritto di difesa” non legittima raccolte indiscriminate o preventive di dati altrui. In assenza di un nesso concreto con un diritto da tutelare, prevale la tutela della privacy interna al luogo di lavoro.

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