Una riforma tra semplificazione e rischio di abuso
Il panorama del diritto del lavoro italiano attraversa, nel biennio 2024–2025, un periodo di profonda ridefinizione degli strumenti di flessibilità. Il Collegato Lavoro 2024 (Legge 13 dicembre 2024, n. 203, in vigore dal 12 gennaio 2025), insieme al decreto “Mille proroghe” e al “Decreto Lavoro” (D.L. n. 48/2023, convertito in legge 3 luglio 2023, n. 85), ha introdotto modifiche strutturali al contratto a tempo determinato, alla somministrazione di lavoro e alla disciplina del lavoro stagionale. Parallelamente, il dibattito pubblico è stato acceso dai referendum abrogativi del giugno 2025 sul Jobs Act, che chiedevano la cancellazione di norme sul licenziamento economico e sul reintegro nelle piccole imprese. Se da un lato queste riforme mirano a “semplificare” il mercato del lavoro, dall’altro si aprono spazi per una ri-normazione implicita della precarietà, con lacune e ambiguità normative finora poco considerate, che rischiano di minare la tutela del lavoratore – specie in un contesto in cui la giurisprudenza europea (Corte di Giustizia UE, causa Angelidaki, C‑378/07–C‑380/07) impone chiarezza sull’eccezionalità dei contratti a termine.
1. Somministrazione a termine: flessibilità senza freni?
Il contratto di somministrazione a tempo determinato, regolato primariamente dal D.Lgs. n. 81/2015 (cosiddetto Jobs Act), è stato oggetto di interventi mirati e contraddittori.
1.1 Causali e deroga per categorie svantaggiate
L’art. 10, comma 1, lettera b), della Legge n. 203/2024 ha modificato l’art. 34, comma 2, del D.Lgs. 81/2015, escludendo l’obbligo di causale per la somministrazione a termine di durata superiore ai 12 mesi nei confronti di lavoratori “svantaggiati” o “molto svantaggiati”, ai sensi dell’art. 2, n. 4 e 99 del Regolamento UE n. 651/2014. La norma, in sé, appare finalizzata a favorire il reinserimento lavorativo di categorie fragili. Tuttavia, la definizione di “lavoratore svantaggiato” è ampia e potenzialmente manipolabile: comprende chiunque sia disoccupato da almeno sei mesi o beneficiario di ammortizzatori sociali. Non è previsto alcun criterio oggettivo di verifica del persistente stato di svantaggio al momento del rinnovo o della proroga del contratto. Ciò apre a un rischio di strumentalizzazione: l’azienda potrebbe “qualificare” come svantaggiato un lavoratore ordinario, aggirando l’obbligo di causale previsto dall’art. 19, comma 1, D.Lgs. 81/2015 – norma che, ricordiamolo, recepisce la direttiva europea 1999/70/CE in materia di contratti a termine.
1.2 Contingentamento e calcolo dei limiti
Il D.Lgs. 81/2015, art. 31, comma 2, fissa un tetto massimo del 30% di lavoratori assunti a tempo determinato o in somministrazione rispetto ai dipendenti a tempo indeterminato in forza al 1° gennaio. La Legge n. 203/2024 amplia le categorie escluse da questo calcolo, includendo anche i lavoratori somministrati assunti a tempo indeterminato dall’agenzia. Si crea così un paradosso: un’azienda utilizzatrice potrebbe affidarsi esclusivamente a lavoratori “indeterminati” presso l’agenzia ma a termine presso di sé, aggirando de facto il limite del 30%, senza che alcuna norma lo impedisca. Il controllo su questa prassi ricade interamente sull’Ispettorato Nazionale del Lavoro, spesso privo di risorse per un monitoraggio efficace.
2. Lavoro stagionale: tra legittimità e deriva abusiva
Il Collegato Lavoro ha operato una norma di interpretazione autentica all’art. 11, chiarendo che rientrano nell’ambito delle “attività stagionali” non solo quelle elencate nel DPR n. 1525/1963 (53 voci, molte obsolete), ma anche: “le attività organizzate per far fronte a intensificazioni dell’attività lavorativa in determinati periodi dell’anno, nonché a esigenze tecnico-produttive o collegate ai cicli stagionali dei settori produttivi o dei mercati serviti dall’impresa, secondo quanto previsto dai contratti collettivi” (art. 11, Legge n. 203/2024). Questa definizione, per quanto utile a modernizzare la nozione di stagionalità, solleva un problema costituzionale implicito: la legge delega al contratto collettivo il compito di definire l’ambito stesso della deroga normativa. Ciò viola, in potenza, il principio di riserva di legge in materia di diritti fondamentali (art. 23 Cost.), poiché si tratta di esonerare datori di lavoro da obblighi fondamentali (causale, stop & go, limite dei 24 mesi). Il contratto collettivo, per sua natura, è un atto privato: non può modificare la portata delle garanzie costituzionali del lavoratore. La Corte costituzionale, in passato (sent. n. 175/2019), ha già sottolineato i limiti della delega normativa ai contratti collettivi in materia di tutela dei diritti inviolabili. La questione resta irrisolta: quale organizzazione sindacale è “comparativamente più rappresentativa” ai sensi dell’art. 51, D.Lgs. 81/2015?
E chi controlla che l’accordo collettivo non eluda la direttiva europea sui contratti a termine?
Inoltre, il Ministero del Lavoro, nella Circolare n. 6/2025, ammette chiaramente: “Risulterebbero, infatti, in contrasto con lo scopo della direttiva 1999/70/CE […] i contratti a termine che rispondano a esigenze di carattere non provvisorio”. Eppure, la prassi aziendale già mostra casi in cui si qualificano come “stagionali” attività continuative con picchi periodici – ad esempio, il personale di call center in periodi di promozioni commerciali. La Corte di Cassazione (ord. n. 9243/2023) distingueva nettamente tra “stagionalità in senso stretto” e “intensificazioni di mercato”, ma il Collegato Lavoro ha legittimato proprio quest’ultima, aprendo una breccia per abusi generalizzati.
3. Contratto a termine: proroghe, durata e contributi
Il Collegato Lavoro non ha toccato il limite dei 24 mesi totali per i contratti a termine tra le stesse parti (art. 19, comma 4, D.Lgs. 81/2015), ma esclude espressamente da tale conteggio i contratti stagionali: questi possono protrarsi indefinitamente, purché non superino quattro proroghe (alla quinta, si trasformano in indeterminati). Questa disciplina, applicata in modo disomogeneo nei settori del turismo, della logistica o dell’e-commerce, genera una disuguaglianza verticale tra lavoratori: chi svolge mansioni identiche (es. magazziniere) può essere assunto con un contratto a termine “ordinario” (con limiti, causale, stop & go) o con un contratto stagionale (senza limiti, senza causale), a seconda della “qualificazione” soggettiva dell’attività da parte del datore. Sul piano contributivo, l’INPS, con Messaggio n. 269/2025, ha chiarito che le nuove attività “stagionali” introdotte dal Collegato Lavoro non beneficiano dell’esonero dal contributo addizionale NASpI (1,4%), né dall’incremento dello 0,5% per ogni rinnovo. Tuttavia, nulla impedisce al datore di lavoro di frammentare il rapporto in micro-contratti stagionali, evitando così sia il contributo aggiuntivo sia la trasformazione in indeterminato – il tutto in un contesto di scarsa trasparenza e con un controllo ispettivo lacunoso. Infine, la disciplina del periodo di prova, riformata dall’art. 13 del Collegato Lavoro, stabilisce che nel contratto a termine il periodo di prova è pari a 1 giorno di effettiva prestazione ogni 15 giorni di calendario, senza superare i 30 giorni per contratti fino a 12 mesi. Tuttavia, per contratti stagionali riassunti annualmente, non è chiaro se si debba considerare ogni nuovo contratto come “primo rapporto” o se si applichi il divieto di nuovo periodo di prova per mansioni identiche (art. 7, D.Lgs. 104/2022). La dottrina lavorista (cfr. Peluso, Forum TuttoLavoro 2019) denuncia da anni l’assenza di regole certe su questa materia, con conseguenze dirette sulla stabilità della retribuzione e sulla copertura previdenziale.
La deriva della “flessibilità senza contrappesi”
Il Collegato Lavoro 2024–2025 – unito ai referendum abrogativi falliti, che non hanno toccato il nucleo del Jobs Act – ha consolidato un modello di flessibilità asimmetrica: da un lato, massima libertà per il datore di lavoro; dall’altro, crescente frammentazione e insicurezza per il lavoratore. Nessuno finora ha posto sufficiente attenzione al rischio sistemico: la progressiva sostituzione del contratto a tempo indeterminato con forme “flessibili” strutturali, legittimate da norme che, pur formalmente in linea con la direttiva europea, ne eludono lo spirit. La Corte di Giustizia UE non tollererà a lungo un sistema in cui la “causale” è derogata per categorie ampie, il limite dei 24 mesi è aggirato con la nozione di stagionalità estesa, e il contingentamento è neutralizzato da esclusioni continue. Finché il legislatore continuerà a privilegiare la “semplificazione burocratica” rispetto alla tutela sostanziale, l’Italia rischia non solo una condanna europea, ma soprattutto di normalizzare la precarietà come condizione strutturale del mercato del lavoro – con gravi ripercussioni sulla coesione sociale, la produttività e la dignità del lavoro (art. 1 e 4 Cost.).
Fonti normative e giurisprudenziali citate:
- Legge 13 dicembre 2024, n. 203 (Collegato Lavoro);
- D.Lgs. 15 giugno 2015, n. 81;
- DPR 7 ottobre 1963, n. 1525;
- Regolamento UE n. 651/2014;
- Direttiva 1999/70/CE;
- Corte di Giustizia UE, cause riunite C‑378/07–C‑380/07 (Angelidaki);
- Corte costituzionale, sentenza n. 175/2019;
- Cassazione, ord. n. 9243/2023;
- Ministero del Lavoro, Circolare n. 6/2025;
- INPS, Messaggi n. 269/2025 e n. 483/2025.

