Con l’ordinanza n. 24564 del 4 settembre 2025, la Corte di Cassazione è tornata a delineare con precisione i contorni giuridici entro cui lo scarso rendimento di un lavoratore possa legittimare l’attivazione, da parte del datore di lavoro, di controlli difensivi tecnologici ex post, anche qualora questi siano condotti in forma occulta. Il provvedimento non si limita a riaffermare orientamenti già consolidati, ma si pone come punto di sintesi di un complesso e delicato equilibrio tra il diritto alla riservatezza del lavoratore, garantito dall’articolo 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU), e la legittima esigenza imprenditoriale di tutelare il patrimonio aziendale da condotte illecite. In questo contesto, la Corte ribadisce anzitutto una distinzione fondamentale: tra controlli difensivi “in senso lato”, soggetti agli onerosi adempimenti procedurali previsti dall’articolo 4, comma 1, dello Statuto dei lavoratori (Legge 300/1970), e controlli difensivi “in senso stretto”, che non rientrano nel campo di applicazione di tale norma. I primi consistono in attività di monitoraggio indiscriminate, rivolte alla generalità dei dipendenti o a gruppi indistinti, e finalizzate alla tutela del patrimonio aziendale in via preventiva. I secondi, invece, sono mirati all’accertamento di illeciti specifici, ascrivibili a singoli lavoratori sulla base di indizi concreti e oggettivi. La Corte ha chiarito in più occasioni — tra cui le sentenze n. 25732/2021, n. 34092/2021, n. 18168/2023, n. 28378/2023, n. 5209/2024, n. 7272/2024 e n. 15391/2024 — che solo quest’ultima tipologia può, in via eccezionale, sfuggire all’applicazione formale dell’art. 4 Stat. lav., pur restando soggetta a vincoli di proporzionalità, necessità e rispetto della privacy derivanti dal diritto europeo. Tuttavia, la Corte sottolinea con forza che neppure i controlli difensivi in senso stretto possono essere attivati sulla base di mere impressioni soggettive o di una curiosità investigativa priva di fondamento. Al contrario, essi presuppongono l’esistenza di un “fondato sospetto”, inteso come “specifiche circostanze materiali e riconoscibili” che inducano ragionevolmente il datore di lavoro a ritenere che il dipendente possa aver commesso un illecito. In proposito, la Cassazione richiama espressamente le proprie pronunce nn. 18168/2023, 15391/2024 e 30079/2024, riaffermando che il sospetto non può essere frutto di un “puro convincimento soggettivo”.
In tale quadro, la recente ordinanza del 4 settembre 2025 riconosce che lo scarso rendimento del lavoratore possa costituire un indizio oggettivo idoneo a costituire tale fondato sospetto. La Corte richiama in particolare la sentenza della Corte EDU del 9 gennaio 2018 nel caso López Ribalda c. Spagna (n. 1874/2013), secondo cui “le incongruenze riscontrate nel rendimento specifico del dipendente” offrono “una base giustificativa oggettiva a fondamento delle successive iniziative di verifica intraprese dalla società datrice di lavoro”. Tuttavia — ed è qui il nodo critico dell’analisi — la mera presenza di un calo produttivo non è di per sé sufficiente a legittimare un controllo occulto. Il nostro ordinamento e la giurisprudenza di legittimità hanno infatti delineato una serie di requisiti rigorosi che devono concorrere perché si possa parlare, in senso tecnico-giuridico, di “scarso rendimento”, tale da giustificare non solo un eventuale licenziamento, ma anche, in via preliminare, l’attivazione di un controllo difensivo. In primo luogo, lo scarso rendimento deve manifestarsi come notevole inadempimento, tale da configurare “un’enorme sproporzione tra gli obiettivi fissati dai programmi di produzione per il lavoratore e quanto effettivamente realizzato nel periodo di riferimento” (Cass. 6 aprile 2023, n. 9453). Questa pronuncia riguardava un dipendente di banca che, in un trimestre, aveva effettuato solo 16 visite a clienti o filiali, rispetto alle 120 medie dei colleghi, acquisendo un solo cliente. In tale contesto, la Corte ha ritenuto legittimo il licenziamento, ribadendo una giurisprudenza risalente (Cass. 8973/1991; Cass. 14310/2015; Cass. 23735/2016) e confermata più di recente (Cass. 10640/2024; Cass. 10963/2018). Va tuttavia precisato che, in alcuni casi, la Corte ha parlato di una “sproporzione rilevante” (Cass. 11174/2023), suggerendo una soglia di gravità più aderente al “giustificato motivo soggettivo” ex art. 3, Legge n. 604/1966, rispetto all’ipotesi di giusta causa ex art. 2119 c.c.
In secondo luogo, tale sproporzione deve essere imputabile al lavoratore. Come chiarito da Cass. 10019/2016, un fatto è disciplinarmente rilevante solo se imputabile al dipendente. Per valutare l’imputabilità, la giurisprudenza fa riferimento a due criteri principali: (i) il grado di diligenza normalmente richiesto per la prestazione lavorativa in questione, individuato sulla base della “media di attività tra i vari dipendenti”, e non su standard unilaterali fissati dall’azienda (Cass. 11174/2023; Cass. 9453/2023; Cass. 26676/2017; Cass. 18678/2014); (ii) l’adeguatezza dell’organizzazione aziendale e dei fattori socio-ambientali circostanti (Cass. 18317/2016; Cass. 20050/2009). Infatti, il rendimento deficitario potrebbe derivare da carenze organizzative, da strumenti inadeguati o da condizioni esterne non dipendenti dal lavoratore (Cass. 14605/2000; Cass. 11001/2000), e in tal caso non sarebbe imputabile al dipendente. Infine, lo scarso rendimento deve essere valutato su un arco temporale sufficientemente ampio, non limitato a episodi sporadici o occasionali (Cass. 14310/2015). La Corte ha ritenuto, ad esempio, che un rendimento costantemente inferiore alla media dei colleghi per un periodo di sei mesi potesse giustificare un licenziamento (Cass. 9453/2023). La Cassazione, nell’ordinanza in commento, non esamina però un aspetto cruciale: lo scarso rendimento stesso potrebbe essere stato accertato mediante strumenti tecnologici di monitoraggio (es. software di tracciamento del tempo su specifiche attività). In tal caso, la liceità di tali strumenti dipende dal rispetto dell’art. 4 Stat. lav.. Se la raccolta iniziale dei dati è avvenuta in violazione di tale norma, essa produce dati inutilizzabili, non solo come prova diretta, ma anche come indizio per attivare un successivo controllo difensivo.
In sintesi, secondo la più recente giurisprudenza, culminata nell’ordinanza n. 24564/2025, lo scarso rendimento può essere considerato un fondato sospetto solo a determinate condizioni: deve essere significativo e non occasionale, attribuibile al lavoratore sulla base di un confronto con la media dei colleghi e senza evidenti carenze organizzative; inoltre, deve essere rilevato nel corso di un periodo sufficientemente lungo e non derivare da strumenti di controllo installati in modo illecito.Solo in presenza di questi presupposti, il datore di lavoro può attivare controlli difensivi tecnologici ex post, nel rispetto della proporzionalità, della necessità e del fair balance tra diritti del lavoratore e interessi dell’impresa, come richiesto dalla Corte EDU (Barbulescu c. Romania, 2017; López Ribalda c. Spagna, 2019). Il messaggio della Cassazione è chiaro: non basta “sospettare” per controllare. Occorre un fondamento oggettivo, documentabile e giuridicamente rilevante, altrimenti il controllo si tramuta in indagine arbitraria, lesiva della dignità e della riservatezza del lavoratore.

