Il caso: una condotta aziendale oltre il limite della buona fede
Un lavoratore con oltre trent’anni di anzianità, inquadrato come capo reparto in un’azienda della grande distribuzione, ha visto il proprio percorso professionale trasformarsi in un calvario giudiziario e psicologico a partire dal 2022. Nonostante un curriculum costellato da riconoscimenti interni e un impegno costante — anche in contesti eccezionali come l’apertura di un nuovo punto vendita durante la pandemia —, il suo rapporto con la direzione si è deteriorato in modo progressivo e immotivato.
L’elemento scatenante sembra essere stato l’arrivo di un nuovo direttore, seguito da una serie di contestazioni disciplinari reiterate, molte delle quali relative a irregolarità di lieve entità: prodotti scaduti di uno o due giorni, esposizione di mozzarelle a temperatura ambiente (prassi consolidata e tollerata fino a quel momento), errori di etichettatura. Ancora più grave: alcune contestazioni riguardavano episodi verificatisi durante le sue assenze per permessi legge 104, essendo egli caregiver di una madre invalida al 100%.
Nonostante il riconoscimento formale dello status di caregiver — e dunque la tutela prevista dall’art. 33, comma 3, della legge 104/1992, che vieta il trasferimento senza consenso — il lavoratore è stato trasferito d’ufficio in un altro punto vendita nel febbraio 2024. Tale provvedimento è stato successivamente oggetto di un accordo transattivo in sede conciliativa, ma la condotta vessatoria è ripresa immediatamente dopo il suo rientro al lavoro nel maggio 2025, con nuove contestazioni e perfino una sospensione cautelativa poi annullata il giorno successivo.
Il quadro clinico: stress lavorativo e patologia psichica
Il deterioramento del clima lavorativo ha avuto conseguenze gravi sulla salute psicofisica del lavoratore. Già nel marzo 2024, una visita psichiatrica ha diagnosticato un “Disturbo dell’Adattamento con Ansia ed Umore Deflesso”, riconducibile esplicitamente alle “gravi difficoltà in ambito lavorativo”. Nel settembre 2025, a seguito di una nuova contestazione, il lavoratore ha subito un attacco di panico acuto, richiedendo il ricovero al Pronto Soccorso.
Il quadro clinico è stato confermato da un percorso multidisciplinare presso il Centro Clinico per la Valutazione del Disagio Lavorativo dell’ASL , che ha escluso patologie pregresse o disturbi di personalità e ha attestato in modo univoco il nesso causale esclusivo tra la patologia e il contesto lavorativo. Il test BAI ha rilevato un punteggio percentile di 99, indicativo di ansia severa con compromissione psicofisica.
Il diritto: abuso del potere disciplinare e violazione della buona fede
La vicenda solleva questioni giuridiche di rilievo, a partire dall’abuso del potere disciplinare, regolato dall’art. 7 dello Statuto dei Lavoratori (L. 300/1970), che impone al datore di lavoro di contestare preventivamente l’addebito e di sentire il lavoratore a sua difesa. Come chiarito dalla Corte Costituzionale (sent. n. 204/1982) e dalla Corte di Cassazione (sent. n. 4879/2020), la violazione di tale norma non è un mero vizio formale, ma determina l’inesistenza dell’intero procedimento disciplinare.
Inoltre, la condotta aziendale configura un mobbing organizzativo, inteso come “insieme di decisioni aziendali, formalmente legittime, ma adottate con finalità persecutoria o discriminatoria, tali da creare un ambiente lavorativo intollerabile”. La Corte di Cassazione (ordinanza n. 31912/2024) ha ribadito che, pur essendo le nozioni di mobbing e straining giuridicamente irrilevanti di per sé, rileva invece lo stress lavorativo e l’ambiente stressogeno, che trovano fondamento normativo nell’art. 2087 del codice civile.
L’obbligo del datore di lavoro di adottare “le misure necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro” è stato palesemente violato. Come affermato dalla Cassazione (sent. n. 35235/2022), “l’elemento qualificante non va ricercato nella legittimità o illegittimità dei singoli atti, bensì nell’intento persecutorio che li unifica”.
Discriminazione e violazione del CCNL
Particolarmente grave è la violazione della legge 104/1992, che tutela i caregiver da trasferimenti non consensuali. La Corte di Giustizia dell’Unione Europea (sent. C-681/19) ha chiarito che il mancato accomodamento ragionevole per un caregiver configura una discriminazione indiretta per ragioni di disabilità, ai sensi della direttiva 2000/78/CE.
Infine, la condotta aziendale viola anche il Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro (CCNL) della Distribuzione Moderna Organizzata, in particolare:
- l’art. 42, che impone proporzionalità nei provvedimenti disciplinari;
- l’art. 51, che vieta il demansionamento;
- l’art. 33, che tutela i diritti dei caregiver.
Oltre il risarcimento, la tutela della dignità
Questa vicenda non riguarda solo un singolo lavoratore, ma un modello di gestione aziendale che strumentalizza il potere disciplinare per emarginare figure “scomode” — spesso over 50, caregiver o con alta anzianità. Il ricorso al Giudice del Lavoro chiede non solo il risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale, ma anche l’inibitoria contro ulteriori condotte vessatorie e la citazione in giudizio dell’INAIL per il riconoscimento della patologia psichica come malattia professionale, ai sensi dell’art. 10, comma 4, del D.Lgs. 38/2000.
Come ricordato dalla Corte Costituzionale (sent. n. 179/1988), per il riconoscimento di una malattia professionale non è necessario dimostrare l’intento persecutorio del datore, ma è sufficiente provare il nesso eziologico tra l’attività lavorativa e la patologia.
In un’epoca in cui il benessere psicologico sul posto di lavoro è sempre più al centro del dibattito giuridico e sociale, casi come questo ricordano che la legge non tutela solo la produttività, ma la persona. E che il confine tra gestione aziendale e abuso di potere è tracciato dalla buona fede, dalla proporzionalità e dal rispetto della dignità umana.

