SENTENZA N. 162 ANNO 2022
nel giudizio di legittimità costituzionale del combinato disposto del terzo e quarto periodo dell’art. 1, comma 41, della legge 8 agosto 1995, n. 335 (Riforma del sistema pensionistico obbligatorio e complementare), e della connessa Tabella F, promosso dalla Corte dei conti, sezione giurisdizionale per il Lazio, nel procedimento vertente tra A. P. e l’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS), con ordinanza del 7 maggio 2020, iscritta al n. 63 del registro ordinanze 2021 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 20, prima serie speciale, dell’anno 2021.
Visti l’atto di costituzione dell’INPS, nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica del 10 maggio 2022 il Giudice relatore Maria Rosaria San Giorgio;
uditi l’avvocato Antonella Patteri per l’INPS e l’avvocato dello Stato Pio Giovanni Marrone per il Presidente del Consiglio dei ministri;
deliberato nella camera di consiglio dell’8 giugno 2022.
1.– Con ordinanza iscritta al n. 63 del registro ordinanze 2021, la Corte dei conti, sezione giurisdizionale per il Lazio, ha sollevato, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale del combinato disposto del terzo e quarto periodo del comma 41 dell’art. 1 della legge 8 agosto 1995, n. 335 (Riforma del sistema pensionistico obbligatorio e complementare), e della connessa Tabella F, «nella parte in cui prevede che la decurtazione effettiva della pensione ai superstiti il cui beneficiario possieda redditi aggiuntivi possa eccedere l’ammontare complessivo di tali redditi».
In punto di fatto, il giudice rimettente riferisce di aver depositato, contestualmente all’ordinanza di rimessione, una sentenza non definitiva che ha parzialmente rigettato i capi della domanda proposta, nel giudizio a quo, da A.P. Quest’ultima – titolare, dal 1° febbraio 2015, di una pensione di reversibilità – aveva censurato la legittimità delle decurtazioni che, sulla pensione, erano state effettuate dall’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS) ai sensi dell’art. 1, comma 41, della legge n. 335 del 1995. La ricorrente aveva lamentato che, «almeno per l’annualità 2015», le fossero state applicate decurtazioni in eccesso rispetto ai «redditi aggiuntivi» di riferimento (ossia, rispetto ai redditi da lei conseguiti nel 2014). Con la menzionata sentenza non definitiva, il rimettente «ha disatteso le doglianze attoree fino a rispettiva concorrenza dei redditi aggiuntivi», dovendo per il resto dar corso al giudizio onde rimettere la presente questione di legittimità costituzionale.
In diritto, l’ordinanza di rimessione richiama la norma di cui all’art. 1, comma 41, terzo periodo, della legge n. 335 del 1995, che stabilisce il principio del cumulo tra il trattamento pensionistico ai superstiti e i redditi del beneficiario, con la precisazione, tuttavia, che detto cumulo non può eccedere i limiti indicati dalla Tabella F allegata alla legge. Quest’ultima indica tre fasce di reddito calcolate come triplo, quadruplo e quintuplo del trattamento minimo annuo previsto dal Fondo pensioni lavoratori dipendenti (FPLD) e, con riferimento a ciascuna delle tre fasce, indica la percentuale di cumulabilità del trattamento di reversibilità (rispettivamente, del 75 per cento, del 60 per cento e del 50 per cento).
Nel caso di specie – riferisce il rimettente – l’operato dell’INPS risulta rispettoso di tali prescrizioni, essendo stata applicata, in favore della ricorrente, anche la clausola di salvaguardia di cui al quarto periodo del comma 41 dell’art. 1 della legge n. 335 del 1995 (secondo cui «[i]l trattamento derivante dal cumulo dei redditi di cui al presente comma con la pensione ai superstiti ridotta non può essere comunque inferiore a quello che spetterebbe allo stesso soggetto qualora il reddito risultasse pari al limite massimo delle fasce immediatamente precedenti quella nella quale il reddito posseduto si colloca»). Tuttavia, la pedissequa applicazione delle norme ha comportato che, per le annualità 2015 e 2016, la ricorrente abbia subìto «decurtazioni quantitativamente superiori rispetto ai redditi aggiuntivi il cui possesso […] costituisce la causa efficiente delle decurtazioni stesse». E infatti, per l’annualità 2015, a fronte di un reddito aggiuntivo pari a euro 30.106, sono state applicate «decurtazioni non inferiori a 43.174,43 euro», con eccedenza negativa pari ad euro 13.000 circa; per l’annualità 2016, a fronte di un reddito aggiuntivo pari ad euro 30.646, sono state applicate «correlative decurtazioni per 47.638,02 euro», con eccedenza negativa pari ad euro 17.000 circa. Peraltro, precisa il rimettente, ogni decurtazione annuale è autonoma rispetto a quelle degli anni precedenti o successivi, non essendo possibile alcuna forma di compensazione.
L’esorbitanza quantitativa delle decurtazioni sofferte, in paragone ai redditi aggiuntivi che le hanno determinate, ridonderebbe – a giudizio del rimettente – in violazione del «principio di ragionevolezza a cui è informato il secondo comma dell’art. 3 della Costituzione».
La rilevanza della questione discenderebbe da quanto fin qui considerato, essendosi in presenza, nel caso di specie, di «decurtazioni in misura (largamente) superiore rispetto a quella dei correlativi redditi aggiuntivi posseduti» dalla ricorrente del giudizio principale. L’accoglimento della questione comporterebbe la riconduzione delle decurtazioni, già operate dall’INPS per entrambe le annualità 2015 e 2016, «entro il limite di cui ai rispettivi redditi aggiuntivi».
Quanto alla non manifesta infondatezza, il rimettente sottolinea come «decurtazioni ultra vires esulino palesemente dalla ratio della normativa qui censurata: ratio che consiste nell’escludere il diritto alla pensione di reversibilità nella misura in cui, a quest’ultima, il relativo titolare cumuli ulteriori redditi la cui entità sia tale da controbilanciare la parallela decurtazione di quella medesima pensione». Del resto, qualora il reddito aggiuntivo posseduto dal titolare della pensione sia tale da iscriverlo nella fascia più alta di cui alla Tabella F (situazione che corrisponde alla «eventualità meno favorevole per il pensionato»), la legge prevede la cumulabilità del 50 per cento del trattamento di reversibilità: ciò, sottolinea il rimettente, «a prescindere da quanto cospicuo possa rivelarsi l’ammontare dei redditi aggiuntivi».
In definitiva, sussisterebbe una reciproca autonomia tra il parametro del reddito aggiuntivo, che determina l’ammontare della decurtazione, e il trattamento di reversibilità. La menzionata clausola di salvaguardia, di cui all’art. 1, comma 41, quarto periodo, della legge n. 335 del 1995 riuscirebbe «soltanto a temperare le conseguenze concrete di quell’autonomia», senza tuttavia eliminare «l’assurda eventualità che le decurtazioni possano travalicare i correlativi redditi aggiuntivi di riferimento».
L’esorbitanza così censurata si risolverebbe in «un totale stravolgimento dell’istituto delle decurtazioni» le quali, da indice di bilanciamento atto a far valere la sussistenza di ulteriori risorse con cui far fronte alle esigenze di vita richiamate dall’art. 38, secondo comma, Cost., «si trasformerebbero in mero pretesto per un’espropriazione della pensione di reversibilità». In simile evenienza – chiosa il rimettente – «assurdamente risulterebbe preferibile che il pensionato non avesse conseguito affatto quei redditi aggiuntivi o, almeno, che essi non avessero travalicato la soglia di rilevanza di cui alla tabella F».
2.– È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, concludendo per l’inammissibilità o la manifesta infondatezza della questione.
Nel ricordare che, secondo la giurisprudenza di questa Corte, la pensione di reversibilità risponde alla ratio di «tutelare le esigenze di vita della famiglia, cui il defunto contribuiva» (sono citate le sentenze n. 495 del 1993 e n. 926 del 1988), la difesa erariale sostiene la ragionevolezza della scelta legislativa «di ancorare il parametro, in base al quale va stabilita l’entità delle decurtazioni, all’ammontare dei redditi aggiuntivi posseduti dal beneficiario». Il contesto normativo in cui fu approvata la norma cosiddetta “anticumulo”, del resto, era «volto ad una radicale revisione della materia pensionistica, allo specifico fine di ridurne la spesa»: come messo in luce dal «diritto vivente», frutto di elaborazione della giurisprudenza della Corte di cassazione, l’obiettivo era quello di ridurre la spesa pensionistica nei confronti dei soggetti che potessero contare su guadagni ragguardevoli. Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, del resto, rientrerebbe nella discrezionalità del legislatore tenere conto delle esigenze di bilancio e stabilire, di conseguenza, le variazioni perequative dell’ammontare delle prestazioni dovute (sono citate la sentenza n. 316 del 2010 e l’ordinanza n. 256 del 2001).
L’interveniente osserva che la normativa censurata non lede il beneficiario della pensione di reversibilità che versi in stato di bisogno, in quanto non è prevista alcuna decurtazione qualora l’ammontare dei suoi redditi ulteriori sia inferiore alla soglia individuata dal legislatore. Le decurtazioni, pertanto, sono solo «eventuali e aumentano secondo criteri di progressività». Oggetto di incisione, peraltro, è solo l’importo liquidato a titolo di pensione, «ma non il quantum della pensione, che rimane determinato dall’aliquota di reversibilità». Inoltre, i limiti di cumulabilità sono dalla legge esclusi qualora il beneficiario faccia parte di un nucleo familiare con figli minori.
Le modalità delle decurtazioni, con cui si è data attuazione al bilanciamento dei suddetti interessi, non svelerebbero, pertanto, alcuna lesione del principio di ragionevolezza.
3.– Si è costituito in giudizio l’INPS, in persona del proprio legale rappresentante pro tempore, concludendo per l’inammissibilità o la non fondatezza della questione.
Ricordato il «peculiare fondamento solidaristico» della pensione di reversibilità (sono richiamate le sentenze di questa Corte n. 174 del 2016, n. 74 del 2008 e n. 446 del 2002), l’INPS pone l’accento sulla prevista graduazione dell’importo del trattamento di reversibilità, in presenza di redditi aggiuntivi del beneficiario, graduazione che «è stata ritenuta legittima e equa» dalla sentenza di questa Corte n. 446 del 2002. L’importo della pensione ai superstiti risulta oggi condizionato, proprio per effetto delle norme di cui alla legge n. 335 del 1995, dalla situazione economica del titolare; ciò, secondo valutazioni che sono rimesse alla discrezionalità del legislatore, «col solo limite della palese irrazionalità».
Peraltro – fa notare l’INPS – i limiti alla cumulabilità non si applicano se il beneficiario fa parte di un nucleo familiare con figli minori, studenti o inabili, ed è comunque salva la clausola di salvaguardia dettata dal quarto periodo del comma 41 dell’art. 1 della legge n. 335 del 1995. A questo proposito, viene citato un passaggio della circolare n. 662 (recte: n. 692) del 1996 del Ministero del Tesoro, secondo la quale il raffronto tra le voci reddituali, ai fini dell’applicazione di tale clausola, andrebbe effettuato «con riferimento ai rispettivi importi annui lordi comprensivi della tredicesima mensilità».
A giudizio dell’INPS, non sarebbe configurabile alcuna «espropriazione» a danno del beneficiario, contrariamente a quanto sostenuto dal giudice rimettente. La norma censurata, invero, fa espressamente salvi i trattamenti previdenziali più favorevoli già in essere, con ciò evitando di incidere su diritti acquisiti e su legittimi affidamenti ingenerati. Sono richiamati ampi stralci della citata sentenza n. 446 del 2002, che avrebbe valorizzato le esigenze di tutela degli equilibri di bilancio e di contenimento della spesa pensionistica, aventi rilievo anche per la presente questione. In tale complessivo quadro assumerebbe rilevanza, secondo l’INPS, la «congruità delle decurtazioni ragionevolmente calibrata sulla situazione reddituale reale del destinatario del trattamento».
La prospettazione del giudice rimettente risentirebbe di «una peculiarità della fattispecie che è, ontologicamente, insita nella previsione di legge» e ometterebbe di considerare «la consistenza reddituale che connota ciascuna posizione». In sostanza, a voler seguire tale prospettazione, resterebbe «indifferente […] la fascia reddituale di riferimento» e si attribuirebbe «il medesimo peso» a «situazioni obiettivamente differenti sotto il profilo patrimoniale»: circostanza, essa sì, che aprirebbe il fianco ad «evidenti profili di illegittimità costituzionale poiché palesemente irrazionale e del tutto sganciata da qualsivoglia criterio di proporzionalità».
1.– La Corte dei conti, sezione giurisdizionale per il Lazio, ha sollevato, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale del combinato disposto del terzo e quarto periodo del comma 41 dell’art. 1 della legge 8 agosto 1995, n. 335 (Riforma del sistema pensionistico obbligatorio e complementare), e della connessa Tabella F, «nella parte in cui prevede che la decurtazione effettiva della pensione ai superstiti il cui beneficiario possieda redditi aggiuntivi possa eccedere l’ammontare complessivo di tali redditi».
Il giudice rimettente è chiamato a decidere sul ricorso proposto, nei confronti dell’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS), dalla titolare di un trattamento di reversibilità che, pur avendo goduto del cumulo tra detto trattamento e i propri redditi aggiuntivi maturati nelle annualità 2015 e 2016, si è vista applicare decurtazioni della pensione in misura superiore a detti redditi. L’operato dell’INPS, precisa il rimettente, risulta rispettoso delle disposizioni legislative di riferimento, che impongono di calcolare le decurtazioni secondo i parametri indicati dalla Tabella F allegata alla legge n. 335 del 1995. Tuttavia, l’applicazione di tali disposizioni comporta che, nel caso di specie, le riduzioni superino l’importo dei redditi aggiuntivi che, per ciascuna delle annualità considerate, le hanno determinate, comportando, per l’effetto, una sorta di «espropriazione della pensione di reversibilità» tale da contraddire, in modo palese, la ratio dell’istituto di cui si tratta, rinvenibile nella riduzione del trattamento solo nella misura in cui «il relativo titolare cumuli ulteriori redditi la cui entità sia tale da controbilanciare la parallela decurtazione di quella medesima pensione».
Il Collegio rimettente riferisce di avere, pertanto, già respinto parzialmente il ricorso, con sentenza non definitiva, «fino a rispettiva concorrenza dei redditi aggiuntivi testé indicati», mentre, con riguardo alla parte ulteriore della decurtazione, sottopone a questa Corte il dubbio di legittimità costituzionale delle richiamate disposizioni per violazione dell’art. 3 Cost.
2.– Le eccezioni di inammissibilità sollevate dal Presidente del Consiglio dei ministri, intervenuto in giudizio per mezzo dell’Avvocatura generale dello Stato, e dall’INPS non possono trovare ingresso nel presente giudizio, in quanto si risolvono in mere clausole di stile, prive di qualsivoglia argomentazione.
3.− Nel merito, la questione è fondata.
L’istituto della pensione ai superstiti, introdotto nel nostro ordinamento dal regio decreto-legge 14 aprile 1939, n. 636 (Modificazioni delle disposizioni sulle assicurazioni obbligatorie per l’invalidità e la vecchiaia, per la tubercolosi e per la disoccupazione involontaria e sostituzione dell’assicurazione per la maternità con l’assicurazione obbligatoria per la nuzialità e la natalità), convertito, con modificazioni, in legge 6 luglio 1939, n. 1272, costituisce «una forma di tutela previdenziale ed uno strumento necessario per il perseguimento dell’interesse della collettività alla liberazione di ogni cittadino dal bisogno ed alla garanzia di quelle minime condizioni economiche e sociali che consentono l’effettivo godimento dei diritti civili e politici (art. 3, secondo comma, della Costituzione) con una riserva, costituzionalmente riconosciuta, a favore del lavoratore, di un trattamento preferenziale (art. 38, secondo comma, della Costituzione) rispetto alla generalità dei cittadini (art. 38, primo comma, della Costituzione)» (sentenza n. 286 del 1987, punto 3.2. del Considerato in diritto; più di recente, sentenza n. 174 del 2016, punto 3.1. del Considerato in diritto).
La ratio dei trattamenti di reversibilità, come questa Corte ha già sottolineato, consiste nel «farne proseguire, almeno parzialmente, anche dopo la morte del loro titolare, il godimento da parte dei soggetti a lui legati da determinati vincoli familiari, garantendosi, così, ai beneficiari la protezione dalle conseguenze che derivano dal decesso del congiunto (fra le tante, sentenze n. 180 e n. 70 del 1999, n. 18 del 1998). Si realizza in tal modo, anche sul piano previdenziale, una forma di ultrattività della solidarietà familiare (ancora sentenza n. 180 del 1999), proiettando il relativo vincolo la sua forza cogente anche nel tempo successivo alla morte (così, con riferimento al rapporto coniugale, la sentenza di questa Corte n. 174 del 2016)» (sentenza n. 88 del 2022).
Ciò posto, deve rilevarsi, come questa Corte ha già affermato con riferimento alla specifica questione del cumulo tra pensione e redditi da lavoro, che la sussistenza di altre fonti di reddito può ben giustificare una diminuzione del trattamento pensionistico, «in quanto “la funzione previdenziale della pensione non si esplica, o almeno viene notevolmente ridotta, quando il lavoratore si trovi ancora in godimento di un trattamento di attività” (sentenza n. 275 del 1976)» (sentenza n. 241 del 2016). Il legislatore, attraverso le norme che stabiliscono i limiti di cumulabilità tra pensione e reddito, tiene conto della diminuzione dello stato di bisogno del pensionato, che deriva dalla disponibilità di un reddito aggiuntivo, e, nell’esercizio della sua discrezionalità, è chiamato a bilanciare i diversi valori coinvolti modulando la concreta disciplina del cumulo, in necessaria armonia con i princìpi di eguaglianza e di ragionevolezza (sentenza n. 241 del 2016).
Tuttavia, la regolamentazione del cumulo tra la prestazione previdenziale e i redditi aggiuntivi del suo titolare, laddove comporti una diminuzione del trattamento pensionistico, deve muoversi entro i binari della non irragionevolezza.
La disciplina introdotta dal legislatore del 1995, che trova applicazione nel giudizio a quo, non è rispettosa dei criteri appena richiamati, nella parte in cui consente all’istituto previdenziale di applicare decurtazioni del trattamento di reversibilità in misura superiore ai redditi aggiuntivi goduti dal beneficiario nell’anno di riferimento. Risulta alterato, in tal modo, il rapporto che deve intercorrere tra la diminuzione del trattamento di pensione e l’ammontare del reddito personale goduto dal titolare, il quale si trova esposto a un sacrificio economico che si pone in antitesi rispetto alla ratio solidaristica propria dell’istituto della reversibilità. Il legame familiare che univa il de cuius al titolare del trattamento di reversibilità, anziché favorire quest’ultimo – mediante il riconoscimento di una posta aggiuntiva rispetto ai redditi che egli produca – finisce infatti paradossalmente per nuocergli, sottraendogli non solo l’ammontare corrispondente alla totalità dei redditi aggiuntivi prodotti, ma anche una parte dello stesso trattamento di reversibilità.
Un siffatto risultato è evidentemente irragionevole, e non emendabile, come dimostra la situazione concreta che si è verificata nel procedimento a quo, mediante la sola applicazione della clausola di salvaguardia prevista dal quarto periodo del comma 41 dell’art. 1 della legge n. 335 del 1995, che così recita: «Il trattamento derivante dal cumulo dei redditi di cui al presente comma con la pensione ai superstiti ridotta non può essere comunque inferiore a quello che spetterebbe allo stesso soggetto qualora il reddito risultasse pari al limite massimo delle fasce immediatamente precedenti quella nella quale il reddito posseduto si colloca». Come afferma di aver già accertato il giudice a quo, mediante apposita istruttoria, nel caso di specie l’INPS, prima ancora di procedere alle decurtazioni della pensione di reversibilità della ricorrente, ha bensì applicato detta clausola di salvaguardia: ciò, tuttavia, non è stato sufficiente a evitare che l’importo complessivo delle trattenute travalicasse l’ammontare dei redditi aggiuntivi annuali di riferimento. Il vulnus al principio di ragionevolezza, pertanto, investe non solo il terzo periodo del comma 41 (che stabilisce i limiti di cumulabilità tra pensione di reversibilità e redditi aggiuntivi), in relazione alle fasce reddituali indicate dalla Tabella F allegata alla legge n. 335 del 1995, ma anche il quarto periodo dello stesso comma, proprio perché la clausola di salvaguardia ivi prevista omette di dare congrua regolazione a tale ipotesi.
4.– Al fine di ricondurre a ragionevolezza le disposizioni censurate, è necessario introdurre un tetto alle decurtazioni del trattamento di reversibilità che sono cagionate dal possesso di un reddito aggiuntivo. In tal senso, il legislatore – nell’ambito di un sistema che imponeva limiti al cumulo tra pensione e redditi da lavoro, prima cioè dell’abolizione di tali limiti avvenuta con l’art. 19 del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112 (Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria), convertito, con modificazioni, nella legge 6 agosto 2008, n. 133 – ha dettato discipline anti-cumulo calibrate sull’effettiva consistenza dei redditi aggiuntivi, stabilendo la possibilità di operare diminuzioni del trattamento pensionistico fino a concorrenza di tali redditi (o di una parte di tali redditi). È quanto accaduto, ad esempio, per la disciplina (decorrente dal 1° gennaio 2001) concernente il cumulo tra le quote delle pensioni dirette di anzianità, di invalidità e degli assegni diretti di invalidità, eccedenti il trattamento minimo, e il 70 per cento dei redditi da lavoro autonomo. In questo caso il legislatore, con l’art. 72, comma 2, secondo periodo, della legge 23 dicembre 2000, n. 388, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2001)», ha precisato che «[l]e relative trattenute non possono, in ogni caso, superare il valore pari al 30 per cento dei predetti redditi». Secondo la disciplina previgente, in materia di cumulo delle pensioni di anzianità, eccedenti il trattamento minimo, con il 50 per cento dei redditi da lavoro autonomo, le decurtazioni sul trattamento pensionistico potevano essere applicate «fino alla concorrenza dei redditi stessi» (così l’art. 59, comma 14, della legge 27 dicembre 1997, n. 449, recante «Misure per la stabilizzazione della finanza pubblica»). In base alla disciplina, ancora precedente, del cumulo tra trattamento minimo delle pensioni di vecchiaia e di invalidità e il 50 per cento della retribuzione percepita dal beneficiario (per rapporto di lavoro alle dipendenze di terzi), le conseguenti decurtazioni sull’ammontare del trattamento di pensione potevano effettuarsi «fino a concorrenza della retribuzione stessa» (art. 20, primo comma, del decreto del Presidente della Repubblica 27 aprile 1968, n. 488, recante «Aumento e nuovo sistema di calcolo delle pensioni a carico dell’assicurazione generale obbligatoria», come sostituito dall’art. 20, primo comma, della legge 30 aprile 1969, n. 153, recante «Revisione degli ordinamenti pensionistici e norme in materia di sicurezza sociale»).
La stessa legge n. 335 del 1995, del resto, ha utilizzato, a più riprese, il limite della «concorrenza» con i redditi, allorquando ha introdotto limiti al cumulo tra trattamenti pensionistici e redditi aggiuntivi del titolare. L’art. 1, commi 21 e 22 (successivamente abrogati dal citato art. 19, comma 2, del d.l. n. 112 del 2008, come convertito), invero, nel prevedere un limite di cumulo tra la pensione di vecchiaia, eccedente il trattamento minimo, e i redditi da lavoro dipendente e autonomo, stabiliva che le conseguenti decurtazioni al trattamento di pensione devono considerarsi ammesse «fino a concorrenza dei redditi stessi». Analogamente, l’art. 1, comma 43, della richiamata legge n. 335 del 1995 – nel disporre il divieto di cumulo tra le pensioni di inabilità, di reversibilità o l’assegno ordinario di invalidità, liquidati in conseguenza di infortunio sul lavoro o malattia professionale, e la rendita vitalizia liquidata per lo stesso evento invalidante – ha stabilito che la conseguente decurtazione della pensione può essere ammessa «fino a concorrenza della rendita stessa».
Allo stesso modo, la formulazione del censurato art. 1, comma 41, terzo e quarto periodo, della legge n. 335 del 1995 deve essere integrata – al fine di ricondurla a ragionevolezza, onde evitare la possibilità che, come accaduto nella fattispecie che ha dato luogo al giudizio a quo, le decurtazioni della pensione superino l’ammontare dei redditi goduti dal beneficiario – mediante la previsione del limite della «concorrenza dei redditi». Di conseguenza, il combinato disposto delle norme denunciate deve essere dichiarato costituzionalmente illegittimo nella parte in cui, in caso di cumulo tra il trattamento pensionistico ai superstiti e i redditi aggiuntivi del beneficiario, non prevede che la decurtazione effettiva della pensione non possa essere operata in misura superiore alla concorrenza dei redditi stessi.
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l’illegittimità costituzionale del combinato disposto del terzo e quarto periodo dell’art. 1, comma 41, della legge 8 agosto 1995, n. 335 (Riforma del sistema pensionistico obbligatorio e complementare), e della connessa Tabella F, nella parte in cui, in caso di cumulo tra il trattamento pensionistico ai superstiti e i redditi aggiuntivi del beneficiario, non prevede che la decurtazione effettiva della pensione non possa essere operata in misura superiore alla concorrenza dei redditi stessi.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l’8 giugno 2022.