Quando il cambio di mansione è legittimo e il licenziamento non è contestabile.
In un recente caso giuridico, emerso a fine 2025, si è tornati a discutere di un tema cruciale del diritto del lavoro italiano: la legittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo successivo al rifiuto da parte del lavoratore di una proposta di ricollocazione in una nuova mansione. La vicenda riguarda un’azienda operante nel settore della vigilanza privata, che, a seguito di una riorganizzazione aziendale, ha deciso di cessare l’attività di guardiania non armata per avviare quella di vigilanza armata. Tale trasformazione ha comportato la soppressione del posto di lavoro ricoperto da una dipendente addetta alla redazione dei turni, inquadrata come impiegata. Prima di procedere al licenziamento, il datore di lavoro ha offerto alla lavoratrice una nuova mansione di Guardia Particolare Giurata, con stesso livello contrattuale e trattamento economico, in conformità con il CCNL Vigilanza Privata e Servizi Fiduciari. La nuova posizione richiedeva l’ottenimento del titolo prefettizio (decreto di nomina e porto d’armi), requisito ordinario per quella categoria professionale. Alla dipendente è stato concesso un termine di 5 giorni per accettare o rifiutare la proposta. In assenza di risposta positiva, il datore ha comunicato formalmente il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, ai sensi dell’art. 3 della legge n. 604/1966.
L’obbligo di repêchage: cosa dice la giurisprudenza
L’orientamento consolidato della Corte di Cassazione (sent. n. 26467/2016) chiarisce che, in caso di licenziamento per soppressione del posto di lavoro, il datore ha l’onere di provare non solo l’inesistenza di posizioni equivalenti, ma anche di aver prospettato al lavoratore la possibilità di un reimpiego in mansioni inferiori, purché compatibili con il suo bagaglio professionale. Nel caso in esame, la mansione proposta, pur essendo di natura operativa anziché impiegatizia, non risultava inferiore poiché rientrava nella medesima categoria legale degli impiegati e nello stesso livello contrattuale, in conformità a quanto stabilito dall’art. 2103 del c.c., modificato dal Jobs Act (D.Lgs. n. 81/2015). Tale norma, al comma 5, permette l’assegnazione del lavoratore a mansioni inferiori in presenza di modifiche organizzative aziendali, purché vengano rispettate alcune condizioni. In particolare, le nuove mansioni devono appartenere alla stessa categoria legale, il livello di inquadramento e il trattamento economico devono essere mantenuti – salvo eventuali indennità connesse alla mansione precedente – e la proposta deve essere formalizzata per iscritto, pena la nullità. Nel caso specifico, la proposta aziendale rispettava tutti questi requisiti.
Il rifiuto del lavoratore e la legittimità del licenziamento
Con la sentenza n. 17270 del 24 giugno 2024, la Cassazione ha ribadito che un rifiuto reiterato e ingiustificato di svolgere mansioni rientranti nella propria qualifica contrattuale costituisce una causa legittima di licenziamento per giustificato motivo soggettivo. Questo principio si estende anche al caso in cui il lavoratore rifiuti una proposta legittima di ricollocazione nell’ambito di un processo di riorganizzazione aziendale: se il datore di lavoro ha adempiuto all’obbligo del cosiddetto “repêchage”, l’assenza di risposta o il diniego da parte del lavoratore precludono la possibilità di proseguire il rapporto contrattuale. Tuttavia, va evidenziato che la dimostrazione della reale disponibilità a un cambio di mansione non ricade sul lavoratore, bensì sul datore di lavoro, che deve provare di aver formulato un’offerta concreta e genuina. In assenza di accettazione da parte del lavoratore in tali situazioni, il recesso da parte del datore risulta pienamente giustificato, come stabilito anche dalla pronuncia n. 26467/2016 della Cassazione.
La questione della malattia successiva e del nesso con il lavoro
Successivamente al licenziamento, la lavoratrice ha prodotto certificati medici per stato ansioso e per “patologia grave connessa a invalidità”, facendo riferimento a presunti effetti psicologici del licenziamento. Tuttavia, la giurisprudenza è chiara: affinché si possa configurare stress lavoro-correlato o mobbing, è necessaria una documentazione specifica rilasciata dal medico competente o dalla ASL, in ottemperanza al D.Lgs. 81/2008, art. 28. L’assenza di qualsiasi valutazione preventiva dello stress da parte del datore, non richiesta peraltro in assenza di segnalazioni, e la mancanza di una diagnosi esplicita di stress lavoro-correlato, rendono infondata ogni ipotesi di nesso causale tra patologia e attività lavorativa (cfr. Cass. n. 8948/2020). Inoltre, ai sensi dell’art. 2110 c.c., la malattia insorta dopo la comunicazione di licenziamento non sospende il preavviso né comporta obblighi retributivi a carico del datore, salvo che lo stato di malattia fosse già in atto al momento della comunicazione — circostanza non verificatasi. Questo caso dimostra come il potere organizzativo del datore di lavoro, riconosciuto dall’ordinamento, possa legittimamente tradursi in un cambio di mansione, purché rispettosi dei limiti posti dall’art. 2103 c.c. e dai contratti collettivi. Il lavoratore non ha il diritto di “bloccare” il rapporto rifiutando una ricollocazione legittima e non peggiorativa. Il licenziamento che segue a tale rifiuto è, pertanto, giuridicamente fondato. La Corte di Cassazione, con un orientamento ormai consolidato, continua a bilanciare l’esigenza di flessibilità organizzativa delle imprese con la tutela della professionalità e della dignità del lavoratore, ma senza trasformare il posto di lavoro in una posizione assolutamente immutabile.
In un mercato del lavoro in continua evoluzione, questa equilibrata interpretazione delle norme appare non solo giuridicamente corretta, ma anche socialmente necessaria.

