La verità nella legge e nella giurisprudenza
Immagina di essere licenziato senza una vera giustificazione. Impugni il provvedimento, il giudice riconosce l’illegittimità del licenziamento e ordina la tua reintegrazione. Torni a lavoro con sollievo… ma l’azienda non ti vuole più indietro. Preferisce pagare. Ti propone un indennizzo sostitutivo, pur di non riassumerti. È legittimo? Può il datore di lavoro rifiutare di farti rientrare, anche quando il giudice ha riconosciuto il tuo diritto a tornare al posto di lavoro? La risposta non è semplice, ma è chiara: dipende dal regime di tutela applicabile al tuo caso, dalla dimensione aziendale, dalla data del licenziamento e, soprattutto, da chi ha il potere di scegliere se tornare al lavoro o farsi liquidare. E la legge — così come la Corte di Cassazione — è esplicita: non è il datore a decidere. È il lavoratore a scegliere. Ma c’è un confine sottile, oltre il quale il giudice può davvero trasformare una reintegrazione in un risarcimento forzato.
Il principio cardine: la reintegrazione spetta al lavoratore tutelato
Per i licenziamenti privi di giustificato motivo soggettivo o oggettivo — e per quelli disciplinari illegittimi — la legge prevede due tipi di tutela:
- la tutela reale (reintegrazione + risarcimento);
- la tutela indennitaria (solo soldi).
Nelle aziende con più di 15 dipendenti (o più di 60 nei gruppi), se il licenziamento è illegittimo per insussistenza del fatto contestato o perché il fatto non è sanzionabile con il licenziamento, si applica la tutela reale forte (art. 18, comma 4, legge n. 300/1970, come rimodulato dalla legge Fornero). In questo caso, il lavoratore ha diritto a tornare al lavoro, e il datore non può rifiutarsi. Ma attenzione: il legislatore ha introdotto una via d’uscita. Con il d.lgs. n. 23/2015 (Jobs Act), è stato stabilito che il lavoratore può rinunciare alla reintegrazione, optando per un’indennità sostitutiva.
L’articolo 3, comma 6, del d.lgs. 23/2015 recita testualmente:
«Il lavoratore può rinunciare alla reintegra chiedendo, entro trenta giorni dalla notifica della sentenza o dall’invito del datore di lavoro a riprendere l’attività, un’indennità sostitutiva pari a quindici mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto. In tal caso, il rapporto di lavoro si estingue».
Non è il datore che decide. È il lavoratore. E finché non esercita questa opzione, il datore deve riassumerlo.
Ma se il lavoratore ha paura di tornare?
Può succedere che il lavoratore, pur avendo diritto alla reintegrazione, tema ritorsioni o un clima ostile. Può dichiarare al giudice di non voler tornare, per timore. In questi casi, il datore potrebbe invocare una “rinuncia implicita”.
Ma la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 9653/2021, ha tracciato un confine netto:
«Non può ritenersi desumibile da una mera dichiarazione la volontà del lavoratore di rinuncia alla tutela reale ex art. 18 l. n. 300/1970, richiedendo la norma medesima la formalizzazione di quella volontà accompagnata dall’attribuzione di un’opzione alternativa data dalla facoltà di richiedere la relativa indennità sostitutiva».
In altre parole: dire “ho paura” non basta. Per perdere il diritto alla reintegrazione, il lavoratore deve esercitare formalmente l’opzione prevista dal Jobs Act. Altrimenti, il giudice deve ordinare la reintegra.
E se il datore si rifiuta comunque?
Qui entra in gioco un altro principio: il giudice non può sostituirsi al datore nel rifiutare la reintegrazione. Tuttavia, esiste un’eccezione, prevista in un regime meno protettivo.
Nelle ipotesi di tutela reale attenuata (quando il fatto esiste, ma non giustifica il licenziamento), l’articolo 3, comma 1, del d.lgs. 23/2015 prevede:
«Il datore di lavoro è condannato a reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro e a pagare un’indennità… salvo che entro trenta giorni dall’invito del datore stesso il lavoratore non chieda la trasformazione della tutela reale in indennità sostitutiva pari a quindici mensilità».
Ancora una volta, la scelta è del lavoratore, non del datore. Il datore non può decidere unilateralmente di pagare.
Ma se il rapporto è ormai irrimediabilmente compromesso? Può il giudice trasformare d’ufficio la reintegrazione in un risarcimento?
La risposta arriva dalla Corte di Cassazione, sezione lavoro, con l’ordinanza n. 8182/2013:
«Il rifiuto del lavoratore di riprendere l’attività lavorativa, in assenza di giustificato motivo, comporta la cessazione del diritto al risarcimento del danno per il periodo successivo, ma non esclude il diritto alla reintegrazione qualora questa non sia stata ancora formalmente sostituita con l’indennità».
E ancora più chiaramente, in un’altra pronuncia:
«Il giudice non può, in via d’ufficio, trasformare l’ordine di reintegrazione in una condanna al pagamento di un’indennità, se non ricorrono i presupposti tassativi di legge».
Quindi: no, il giudice non può imporre un risarcimento al posto della reintegra, se il lavoratore non ha scelto l’indennità sostitutiva.
E se il licenziamento è per “giusta causa” ma il giudice la nega?
Prendiamo il caso di un licenziamento per “giusta causa” — ad esempio, per un comportamento ritenuto gravissimo — che il giudice dichiara illegittimo. La Cassazione, con l’ordinanza n. 5588/2024, ha ribadito che:
«La giusta causa di licenziamento deve rivestire il carattere di grave negazione degli elementi essenziali del rapporto di lavoro, e in particolare dell’elemento fiduciario… esige valutazione non astratta dell’addebito, ma attenta ad ogni aspetto concreto del fatto… rispetto a un’utile prosecuzione del rapporto di lavoro».
Se il fatto non raggiunge questa soglia, il licenziamento è illegittimo. E se ricorrono i presupposti dell’art. 18, il lavoratore ha diritto alla reintegra. Il datore non può semplicemente dire: «Preferisco pagare».
Chi decide? Il lavoratore — non il datore, non il giudice
La legge italiana — nonostante le riforme — tutela ancora il diritto al lavoro quando il licenziamento è manifestamente ingiusto. Il datore di lavoro non può unilateralmente sostituire la reintegrazione con un pagamento, neppure se il rapporto è teso o se il lavoratore appare riluttante.
Solo due strade conducono alla liquidazione in denaro:
- il lavoratore esercita formalmente l’opzione per l’indennità sostitutiva (15 mensilità);
- il fatto esiste ma non giustifica il licenziamento, e il lavoratore non risponde all’invito a rientrare entro 30 giorni.
- In tutti gli altri casi, la reintegrazione è obbligatoria. E se il datore si rifiuta di ottemperare, il giudice può imporre sanzioni accessorie, inclusa la condanna al pagamento delle retribuzioni anche per il periodo successivo, più interessi e spese legali.
Perché in Italia, almeno finché la legge lo permette, il posto di lavoro non è una merce. È un diritto — e non si paga per cancellarlo.

