quanto statuito dalla recente Cass. 16 febbraio 2023 n. 4833, dinanzi all’eccezione (costantemente mossa da Inps in questo tipo di procedimenti) di difetto di legittimazione passiva dell’Istituto e di inammissibilità della domanda di mero accertamento dello stato di handicap da parte della ricorrente. La lavoratrice chiedeva infatti il riconoscimento senza indicare lo specifico beneficio che intendeva conseguire. A sostegno del difetto di interesse ad agire della ricorrente, l’Istituto previdenziale adduceva che l’azione di mero accertamento fosse in contrasto con il principio dell’improponibilità di azioni autonome di mero accertamento di fatti che non integrano da soli la fattispecie costitutiva di un diritto.
La Suprema Corte, sostenendo che la l. 5 febbraio 1992 n. 104 è improntata a una visione unitaria e a una tutela ad ampio raggio della persona disabile nelle multiformi estrinsecazioni della vita quotidiana, ha correttamente riconosciuto l’handicap grave come una condizione o, meglio, un vero e proprio “status” in cui versa la persona che ne è portatrice. A tale status si correlano una pluralità indeterminata di situazioni soggettive attive e passive che il soggetto richiedente ha diritto a vedersi riconosciute.
La condizione di handicap, affliggendo una persona fragile, assume pieno rilievo giuridico di per sé e, dunque, a questa si ricollegano una vasta gamma di misure volte a rimuovere le discriminazioni ingenerate dallo stato di handicap. Tali misure non hanno carattere solo assistenziale, ma si innestano su un piano molto più ampio, articolato e complesso: quello dell’inclusione, posto dallo Stato a tutela della persona a tutto tondo. In sostanza lo Stato ha l’obbligo giuridico di predisporre siffatte misure al fine di adempiere al compito impostogli dalla art. 3, co. 2., Cost., ossia quello «di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese».
Nell’ordinanza in commento la Cassazione, rifacendosi a un proprio precedente giurisprudenziale (Cass. 15 settembre 2021 n. 24953), argomenta che sono proprio «lo spessore e la oggettiva rilevanza che il diritto positivo riconosce alla situazione del soggetto nei cui confronti risulti accertato l’handicap, ovvero a chi dello stesso si prenda stabilmente cura, a conferire all’handicap la peculiarità di una fattispecie completa e non frazionata che restituisce, successivamente e nell’arco dell’intera esistenza quotidiana, alla persona da tutelare una variegata gamma di strumenti giuridici atti a tentare di colmare i divari che l’inserimento sociale determina». Alla tutela riconosciuta dalla Costituzione si affiancano anche le fonti sovranazionali, improntate all’obiettivo di piena ed effettiva integrazione della persona disabile. In particolare, l’art. 26 della Carta dei diritti fondamenti dell’Unione Europea (c.d. Carta di Nizza), nel riconoscere e rispettare il diritto delle persone disabili a beneficiare di misure intese a garantirne l’autonomia, l’inserimento sociale e professionale e la partecipazione alla vita della comunità, si appalesa improntato, anch’esso, a una logica di inclusione e inserimento dei disabili, mettendo in campo tutte misure protese al raggiungimento di un’uguaglianza che possa ritenersi non solo formale ma anche sostanziale.
In questo senso l’azione per il riconoscimento dell’handicap grave non verte solo e tanto sull’accertamento di una mera condizione di invalidità improduttiva di effetti, bensì è una condizione soggettiva in cui versa la persona che ha diritto a vedersi riconosciuto tale status anche se a esso non consegua l’ottenimento di un beneficio, ma per il sol fatto di poter accedere a tutte quelle misure predisposte dallo Stato stesso per appianare le barriere che si frappongono al raggiungimento dell’uguaglianza sostanziale.
Pertanto, perché la tutela della persona portatrice di handicap possa dirsi veramente effettiva, alla speciale protezione che l’ordinamento giuridico appresta sul piano sostanziale non può che conseguire anche il riconoscimento, sul piano squisitamente processuale, dell’interesse ad agire, onde evitare di incappare nella contraddizione di riconoscere un diritto senza, poi, dotare il suo titolare della corrispondente possibilità di attivarlo in giudizio.
In quanto sinora argomentato risiede il motivo per cui il riconoscimento dell’interesse all’accertamento dello stato di handicap grave non contraddice in nessun modo la giurisprudenza della Cassazione, che reputa inammissibili le azioni autonome di mero accertamento di fatti giuridicamente rilevanti che costituiscano solo elementi irrelati della fattispecie costitutiva di un diritto. Di qui la cristallizzazione del principio secondo cui, per essere legittimata ad agire ex art. 445-bis c.p.c., la persona portatrice di handicap può limitarsi a domandare l’accertamento della sua situazione di disabilità grave, senza che a essa sia necessariamente collegata l’indicazione di un beneficio economico o in termini di prestazioni assistenziali.
In questo senso, l’ordinanza in commento ha rigettato anche l’opposizione Inps alla sentenza del Tribunale che aveva omologato l’accertamento tecnico preventivo (e riconosciuto, dunque, lo stato di handicap grave della ricorrente) anche nella parte in cui l’Istituto aveva eccepito il difetto di legittimazione passiva. La Suprema Corte rileva che, in forza dell’art. 10, d.l. 30 settembre 2005 n. 203, l’Inps è subentrato allo Stato nelle funzioni che allo stesso residuavano in materia di handicap e, pertanto, deve considerarsi l’unico legittimato passivo nei procedimenti giurisdizionali relativi all’accertamento della condizione di handicap grave.