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Il licenziamento disciplinare

Il licenziamento disciplinare

La giurisprudenza di legittimità ha costantemente ribadito, avuto particolare riguardo al regime instaurato con la L. n. 92 del 2012, che il giudice deve procedere ad una valutazione più articolata circa la legittimità dei licenziamenti rispetto al periodo precedente: in primo luogo deve accertare se sussistano o meno la giusta causa ed il giustificato motivo di recesso, secondo le previgenti nozioni fissate dalla legge, non avendo effettivamente la riforma del 2012 modificato le norme sui licenziamenti individuali (cfr. Cass. civ., sez. un., n. 30985 del 2017); nel caso in cui escluda la ricorrenza di una giustificazione della sanzione espulsiva, il giudice deve poi svolgere, al fine di individuare la tutela applicabile, una ulteriore disamina sulla sussistenza o meno delle diverse condizioni previste per l’individuazione dell’apparato sanzionatorio, in particolare quelle per accedere alla tutela reintegratoria; “sotto l’aspetto metodologico, […], si tratta di due valutazioni diverse: l’una riguardante la esistenza della giusta causa e l’altra la tutela applicabile, che devono essere svolte autonomamente” (in termini, per tutte, Cass. civ. n. 3076 del 2020; in conformità, Cass. civ. n. 17492 del 2020; Cass. civ. n. 30850 del 2021; Cass. civ. n. 11665 del 2022; Cass. civ. n. 13774 del 2022; Cass. civ. n. 16973 del 2022; Cass. civ. n. 26510 del 2023).

Mentre la prima valutazione ha come parametro esterno con cui regolare la fattispecie gli artt. 2119 c.c. e 3 della L. n. 604 del 1966, la seconda – che è successiva ed eventuale perché ha ingresso solo nel caso in cui il giudice ritenga il recesso ingiustificato alla stregua del primo parametro – trova il suo referente nell’art. 18 St. lav., come modificato dall’art. 1, comma 42, lett. b), l. n. 92 del 2012, non a caso rubricato «Tutela del lavoratore in caso di licenziamento illegittimo», a significare che in esso vi è la disciplina delle conseguenze sanzionatorie di un recesso giudicato illegittimo sulla base di un parametro normativo che è presupposto e altrove; le nozioni legali che contengono le causali giustificative del licenziamento disciplinare le descrivono o come “causa che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto” (ex art. 2119 c.c.) oppure come “un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali del prestatore di lavoro” (ex art. 3, L. n. 604 del 1996), con una variante meramente quantitativa fondata sulla gravità (tra molte, v. Cass. civ. n. 6889 del 2002); esse sono destinate a coprire l’intera area del licenziamento “ontologicamente” disciplinare, ovvero motivato da una condotta colposa o comunque manchevole del lavoratore (Cass. civ., sez. un. n. 4823 del 1987; Corte Cost. n. 204 del 1982).

A tali nozioni legali deve innanzitutto fare riferimento il giudice chiamato a verificare la legittimità di un licenziamento disciplinare, tenendo conto di una pluridecennale giurisprudenza di legittimità che ha interpretato dette disposizioni nel senso che la riconduzione del fatto contestato e accertato alle ipotesi normative è frutto di selezione e valutazione di una pluralità di elementi, con “un giudizio complesso, che si relaziona, da un lato, alla portata oggettiva e soggettiva dei fatti contestati, alle circostanze nelle quali sono stati commessi e all’intensità del profilo intenzionale; dall’altro lato, alla proporzionalità tra tali fatti e la sanzione inflitta, per stabilire se la lesione dell’elemento fiduciario su cui si basa la collaborazione del prestatore di lavoro, sia tale, in concreto, da giustificare la massima sanzione disciplinare” (in termini, Corte Cost. n. 129 del 2024).

Invero, secondo risalenti e consolidati orientamenti, il licenziamento può essere legittimamente intimato allorquando la condotta del lavoratore rivesta il carattere di grave negazione degli elementi essenziali del rapporto di lavoro e, in particolare, di quello della fiducia (tra le recenti: Cass. civ. n. 3120 del 2021; Cass. civ. n. 14880 del 2020; Cass. civ. n. 19092 del 2018; Cass. civ. n. 14527 del 2018; Cass. civ. n. 12798 del 2018); sia, cioè, un comportamento idoneo, per la sua gravità, a far venir meno la fiducia nei futuri adempimenti (tra le tante, Cass. civ. n. 11806 del 1997; Cass. civ. n. 5633 del 2001; Cass. civ. n. 12777 del 2019) ovvero a far ritenere che la prosecuzione del rapporto si risolva in un pregiudizio per gli scopi aziendali, con particolare attenzione alla condotta del lavoratore che denoti una scarsa inclinazione ad attuare diligentemente gli obblighi assunti e a conformarsi ai canoni di buona fede e correttezza (Cass. civ. n. 18195 del 2019; Cass. civ.  n. 13411 del 2020; Cass. civ. n. 36427 del 2023); esclusa ogni rilevanza delle percezioni meramente soggettive di parte datoriale (in principio Cass. civ. n. 3744 del 1984 e Cass. civ. n. 8847 del 1987), la valutazione del giudice deve essere condotta con riferimento non già al fatto astrattamente considerato, bensì agli aspetti concreti di esso, di modo che risulti come la specifica mancanza commessa dal dipendente, considerata non solo nel suo contenuto oggettivo, ma anche nella sua portata soggettiva, specie con riferimento alle particolari circostanze e condizioni in cui essa è stata posta in essere, ai suoi modi, ai suoi effetti ed all’intensità dell’elemento intenzionale dell’agente, risulti idonea a ledere, in modo tanto grave da farla venire meno, la fiducia che il datore di lavoro deve poter riporre in chi collabora nell’impresa e tale, quindi, da esigere sanzioni non minori di quella massima, definitivamente espulsiva; in particolare, detto accertamento deve essere svolto tenendo conto della qualità del singolo rapporto intercorso tra le parti, della posizione che in esso abbia avuto il prestatore d’opera e, quindi, della qualità e del grado del particolare vincolo di fiducia che quel rapporto comportava (ex pluribus, Cass. civ. n. 5943 del 2002; Cass. civ. n. 12798 del 2018; Cass. civ. n. 3115 del 2021).

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