Nel 2024 si potrà continuare ad accedere alla pensione di vecchiaia con 67 anni di età e almeno 20 di contribuzione. L’età anagrafica, che è adeguata alla aspettativa di vita, dovrebbe restare fissa fino alla fine dell’anno, e quindi anche per il biennio 2025-2026, mentre per i prossimi anni è probabile un aumento di circa tre mesi. La pensione di vecchiaia anticipata resta possibile con 42 anni e 10 mesi di anzianità contributiva (41 anni e 10 mesi per le donne), indipendentemente dall’età anagrafica e senza ulteriori adeguamenti all’aspettativa di vita, congelati dalla legge 4/2019 fino al 2026. Un adeguamento (secondo alcune voci dello scorso ottobre, poi non riscontrate nella pratica, anticipato già al 2025 dalla manovra finanziaria) che non trova applicazione nella normativa pensionistica della stragrande maggioranza dei Paesi UE e OCSE e che andrebbe in verità eliminato definitivamente per evitare pesanti distorsioni di sistema, come quella che vorrebbe l’accesso con soli 20 anni di contributi versati alla pensione di vecchiaia, che generalmente beneficia anche di soldi pubblici (integrazioni al minimo, maggiorazioni sociali, etc), e la richiesta di requisito più che doppio per quanti volessero far valere invece solo la contribuzione effettivamente corrisposta all’ente pensionistico.
Tra conferme e parziali novità, tra le altre anticipazioni possibili si ricordano in particolare:
1) Quota 103, introdotta in sostituzione di Quota 102 del Governo Draghi a decorrere dall’1 gennaio 2023 e che consente di andare in pensione anticipata con 62 anni di età e 41 di contributi, viene prorogata ma con alcuni cambiamenti. Vengono infatti sì mantenuti i requisiti già previsti ma l’intera pensione sarà calcolata con il metodo di calcolo contributivo (e non misto), anche per la parte di anzianità maturata con il sistema retributivo, vale a dire per i periodi di lavoro antecedenti l’1 gennaio 1996 per coloro che al 31 dicembre 1995 avevano più di 18 anni di anzianità e fino al 31 dicembre 2011, quando la legge Fornero ha introdotto per tutti i lavoratori il contributivo pro rata. Inoltre, la misura dell’assegno non potrà risultare superiore a 4 volte il trattamento minimo INPS (poco più di 2.270 euro lordi al mese) fino al compimento dei 67 anni di età (la cifra era di 5 volte il TM fino al 31 dicembre 2023). In aggiunta, vengono poi inasprite le cosiddette finestre mobili, vale a dire il periodo intercorrente tra la maturazione dei requisiti e la fruizione della prima rata di pensione, che passa dai 3 mesi (6 per i dipendenti pubblici) previsti dalla norma per il 2023 ai 7 mesi del 2024 (9 per i dipendenti pubblici).
Da evidenziare poi che per chi opta per Quota 103 (come per Quota 100 e 102) è vigente il divieto di lavorare e quindi l’impossibilità di cumulare redditi da lavoro con quelli da pensione fino al raggiungimento dei 67 anni di età. La percezione di eventuali redditi da lavoro comporta dunque la sospensione del trattamento pensionistico in tutte le circostanze, tranne una: la cumulabilità è ammessa per redditi da lavoro occasionale che non superino complessivamente i 5.000 euro lordi l’anno. Resta infine confermata la possibilità per il lavoratore dipendente che, dopo aver maturato i requisiti per accedere al pensionamento anticipato continua a lavorare, di chiedere che la contribuzione a suo carico – pari al 9,19% – venga inserita in busta paga, mentre la quota a carico del datore di lavoro continuerà a essere versata all’INPS. Attenzione, però, perché la parte di contributi così incassata non contribuirà a incrementare la pensione e verrà assoggettata a tassazione IRPEF. Insomma, un affare per lo Stato ma non per il lavoratore, per il quale, potendo, sarebbe più conveniente optare per l’uscita con 42/41 anni e 10 mesi di anzianità contributiva, con solo 3 mesi di finestre mobili e senza ricalcolo contributivo, divieto di cumulo tra redditi da pensione e da lavoro e riduzione dell’assegno pensionistico.
Ovviamente, chi ha maturato i requisiti di Quota 103 entro il 31 dicembre 2023 potrà richiedere la pensione nel 2024 e negli anni seguenti mantenendo le più favorevoli condizioni previste dalla attuale normativa. Lo stesso potrà fare chi ha maturato i requisiti di Quota 100 (62 anni di età e 38 di contributi) entro il 31 dicembre 2021 e Quota 102 (64 anni di età e 38 di contributi) entro il 31 dicembre 2022
2) Opzione Donna che, introdotta sperimentalmente dall’art. 1, comma 9, della L. 243/2004 prevedendo la possibilità di pensionamento anticipato per le lavoratrici con 35 anni di contributi e 57 anni di età (58 per le autonome), era in verità già stata resa più restrittiva dalla scorsa Legge di Bilancio. Come per il 2023, anche nel nuovo anno potranno quindi accedervi le lavoratrici: a) licenziate o dipendenti in aziende con tavolo di crisi aperto presso il Ministero; b) con disabilità pari o oltre il 74% con accertamento dello stato di invalido civile; c) che assistono da almeno 6 mesi persone disabili conviventi, con disabilità grave in base alla legge 104 del 1992, di primo o secondo grado di parentela solo in quest’ultimo caso per ultra 70 enni.
Rispetto allo scorso anno, viene però alzato il requisito anagrafico che passa da 60 a 61 anni d’età, sempre a fronte di 35 anni di contribuzione e con riduzione di 1 anno per ogni figlio nel limite massimo di due. Confermati invece il calcolo della pensione con metodo interamente contributivo (con una riduzione di circa il 18-20% applicando i coefficienti in vigore al 2023) e le finestre mobili di 12 mesi per le lavoratrici dipendenti e 18 mesi per le autonome. In pratica, una lavoratrice autonoma senza figli accederà a Opzione Donna a 62 anni e mezzo. Va anche in questo caso precisato, ma questo vale in linea di massima anche per le altre anticipazioni, che per il principio della “cristallizzazione del diritto a pensione” si può accedere alla prestazione anche nei periodi successivi alla maturazione del diritto (requisiti + finestre), quindi anche negli anni successivi. La pensione maturata con Opzione Donna è pienamente cumulabile con altri redditi da lavoro al pari di qualsiasi altra pensione.
3) L’APE sociale, che viene prorogata fino al 31 dicembre 2024. Sale però anche in questo caso il requisito anagrafico tanto che, anziché con gli attuali 63 anni, si potrà accedere alla prestazione con 63 anni e 5 mesi di età. In particolare, possono fare richiesta: i lavoratori disoccupati (con 30 anni di contribuzione) a seguito di cessazione del rapporto di lavoro per licenziamento, anche collettivo, dimissioni per giusta causa o risoluzione consensuale o dipendenti di aziende con tavolo di crisi aperto presso il Ministero e che hanno esaurito i periodi di disoccupazione, tipo NASpI; le persone con 30 anni di contribuzione, con disabilità pari o oltre il 74% e riconosciuti invalidi civili; c) i lavoratori caregiver che, a fronte di 30 anni di versamenti contributivi, assistono da almeno 6 mesi persone disabili conviventi, con disabilità grave in base alla legge 104 del 1992, siano di primo o secondo grado di parentela (solo per over 70); i lavoratori dipendenti che svolgono mansioni cosiddette “gravose”, con almeno 36 anni di contribuzione e che al momento della domanda di accesso all’APE sociale, abbiano svolto una o più delle professioni riconosciute come gravose per legge. Saltano, tuttavia, l’ampliamento delle categorie di lavoratori gravosi riconosciute dalla legge n. 234/2021 nel biennio 2022-2023 e le relative riduzioni contributive per edili e ceramisti.
Per il 2024 è poi inserita, oggi assente, la previsione di incumulabilità totale della prestazione con i redditi di lavoro dipendente o autonomo, con la sola eccezione del lavoro occasionale entro un massimo di 5mila euro annui. L’assegno è invece sempre calcolato col sistema misto ma con limitazioni riguardanti l’importo (per un massimo di 1.500 euro lordi mensili) e l’assenza di tredicesima e adeguamenti all’inflazione fino al raggiungimento, a 67 anni di età anagrafica, della pensione di vecchiaia.
“Giovani contributivi” e pensione di vecchiaia anticipata
Per i lavoratori interamente contributivi, cioè coloro che hanno iniziato a lavorare dall’1 gennaio 1996 in poi, cambiano i requisiti per andare in pensione rispetto a quelli previsti dalla riforma Fornero.
In realtà, poiché il nostro sistema pensionistico è a ripartizione (vale a dire che con i contributi dei lavoratori attivi si pagano le prestazioni di quanti sono effettivamente in pensione) la legge Fornero aveva, sotto il profilo tecnico, erroneamente suddiviso i lavoratori in due gruppi: da un parte, i retributivi e i misti che godono di requisiti più favorevoli per il pensionamento e beneficiano di integrazione al minimo o maggiorazione sociale nel caso in 67 anni di vita non abbiano maturato il minimo pensionistico (per raggiungerlo basterebbero solo 15 anni di normale contribuzione ma oggi quasi il 25% dei pensionati beneficia di questi trattamenti, il che induce a pensare a una larga dimensione del lavoro irregolare); dall’altra, i contributivi puri che non hanno né integrazione al minimo né maggiorazioni sociali e per i quali la riforma Monti-Fornero prevede la pensione di vecchiata a 67 anni, con 20 di contribuzione, solo a fronte di un importo pensionistico pari a 1,5 volte l’assegno sociale. Diversamente, occorrerà attendere il raggiungimento dell’importo oppure i 71 anni di età, comunque adeguati nel tempo all’aspettativa di vita. Previsto poi anche un canale di accesso anticipato ma molto selettivo, con 64 anni di età anagrafica, 20 di versamenti e un importo maturato pari a 2,8 volte l’importo dell’assegno sociale (circa 1.350 euro al mese).
Visti i proclami della Lega in materia di pensioni e considerando che una simile divisione delle platee non sembra appunto compatibile con le dinamiche di un sistema a ripartizione, si pensava che finalmente si estendessero i requisiti e i benefici dei retributivi/misti anche ai contributivi. Invece, incomprensibilmente visto che i primi pensionati interamente contributivi arriveranno solo tra il 2030/32, la Legge di Bilancio ha modificato in senso ancora più restrittivo i requisiti di accesso alla cosiddetta pensione anticipata contributiva. Dal 2024 sarà possibile accedervi solo se l’importo dell’assegno sarà pari almeno a 3 volte il valore dell’assegno sociale (nelle stesure iniziali la previsione era addirittura di 3,3 volte), tranne nei casi di lavoratrici madri, che vedranno scendere il tetto a 2,8 volte la pensione sociale con un figlio e 2,6 volte in presenza di più figli. Viene poi stabilito che l’assegno così ottenuto non potrà eccedere le 5 volte il trattamento minimo INPS (cioè, circa 2.840 euro lordi al mese) sino al raggiungimento dei 67 anni (cioè, l’età di vecchiaia), limite quest’ultimo non previsto dalla legge Fornero che, allo stesso modo, non prevedeva alcuna finestra mobile, dall’ultima manovra finanziaria fissata invece a 3 mesi dalla maturazione dei requisiti. Infine, la Legge di Bilancio per il 2024 stabilisce che il requisito contributivo di 20 anni dovrà essere adeguato alla speranza di vita calcolata dall’Istat, lì dove la riforma Monti-Fornero stabiliva l’adeguamento solo per il requisito anagrafico. D’altro canto, in un modo per la verità piuttosto schizofrenico, per quanto riguarda l’accesso alla pensione di vecchiaia, la manovra per il 2024 elimina il limite di 1,5 volte l’assegno sociale per l’accesso alla pensione di vecchiaia a 67 anni con almeno 20 anni di contributi, mentre restano i requisiti di accesso alla vecchiaia con 71 anni d’età e almeno 5 anni di contributi a prescindere dell’importo del trattamento che comunque non beneficia di alcuna integrazione.
Già prevista dal “decretone” del 2019 e rimasta in vigore in via sperimentale fino al 2021, torna poi – ma solo per i contributivi puri – la cosiddetta pace contributiva, vale a dire la facoltà di riscattare i periodi non coperti da contribuzione entro un massimo di 5 anni. Una possibilità che, per il biennio 2024-2025, riguarda appunto solo coloro che al 31 dicembre 1995 risultano privi di anzianità contributiva e che consiste nella facoltà di riscattare fino a 5 anni, anche non consecutivi, di “vuoti contributivi” tra l’1 gennaio 1996 e il 31 dicembre 2023. Il costo del riscatto è calcolato con il sistema contributivo, che prevede l’applicazione dell’aliquota contributiva in vigore nella gestione in cui si chiede il riscatto: per un dipendente il 33% del proprio imponibile, per un autonomo in media il 24%, per un lavoratore iscritto alla Gestione Separata INPS il 25,72% rapportato alla retribuzione da lavoro percepita nei 12 mesi precedenti la domanda e moltiplicato per gli anni da riscattare (anche quelli di studio non validi ai fini del cosiddetto riscatto di laurea). Tale onere è detraibile al 50 % dai redditi nell’anno del versamento e nei 4 successivi e potrà essere versato in un’unica soluzione o in più tranche, fino a 120 rate mensili di importo non inferiore a 30 euro. Qualora si scelga la rateizzazione, non verranno applicati interessi.
Rideterminazione dell’indicizzazione delle pensioni per il 2024
Per finanziare l’aumento delle pensioni basse e parte della decontribuzione, il cui costo stimato per il 2024 è di circa 15 miliardi, la Legge di Bilancio modifica quella dello scorso anno inasprendo ulteriormente le penalizzazioni sulla rivalutazione delle pensioni.
Già a partire dallo scorso anno la perequazione automatica dei trattamenti pensionistici all’inflazione, in contrapposizione a quanto previsto dal governo Draghi che aveva nuovamente introdotto la rivalutazione per scaglioni, la norma scritta da ministro Giorgetti, copiando il metodo Conte, prevedeva l’adeguamento al valore più basso sull’intero importo. Schema che viene di fatto confermato, al netto di un’ulteriore riduzione della percentuale di rivalutazione riconosciuta ai trattamenti superiore ai 10 volte il trattamento minimo, la cui aliquota scende dal 32% del 2023 al 22% del 2024. Con un enorme danno per i pensionati che, non avendo alcun strumento di contrattazione, dovranno subire interamente la perdita.
Volendo fare un semplice esempio, con un’inflazione 2023 pari in via definitiva all’8,1% e un’inflazione 2024 fissata invece in via provvisoria al 5,4%, un pensionato con prestazione pari a 10 volte il TM (poco più di 3.850 euro netti), dopo aver pagato ogni mese per 13 mensilità oltre 25mila euro di tasse, si troverà la sua pensione rivalutata dapprima solo del 32% (il 2,592%) e quindi solo del 22% (1,19%), con una perdita di potere reale d’acquisto in due anni all’incirca del 10%. Supponendo che questo pensionato viva almeno altri 10 anni e che l’inflazione in quel decennio sia del 2%, sul più lungo periodo si sta parlando di circa 100mila euro di mancata rivalutazione.