Cassazione Civile, Sez. Lav., 18 marzo 2024, n. 7190 – Estorsione delle dimissioni: “reato in contratto” e annullabilità dell’atto
Il Lavoratore. domandava l’ammissione al passivo del fallimento della (OMISSIS) s.r.l. in liquidazione dichiarato dal Tribunale di Ancona, chiedendo l’ammissione in privilegio ex art. 2751 bis, n. 1, c.c. per l’importo di € 133.640 a titolo di retribuzioni maturate da agosto 2009 al 21.12.2017 (data di dichiarazione del fallimento), nonché per l’importo di € 24.055,20 in prededuzione per il periodo successivo, previo accertamento della nullità dell’atto di apparenti dimissioni del 15.7.2009 per violazione di norme imperative ovvero, in via alternativa e subordinata, annullamento dell’atto siccome affetto di violenza o dolo ovvero ai sensi dell’art. 428 c.c. e conseguenti accertamento e declaratoria che il rapporto di lavoro subordinato era proseguito senza soluzione di continuità, con diritto alle retribuzioni maturate in tutto il periodo dalle apparenti dimissioni al fallimento;
a sostegno della propria domanda, esponeva che: – era stato costretto a presentare una lettera di dimissioni compilata sotto dettatura di due responsabili dell’azienda, che lo minacciavano altrimenti di conseguenze pregiudizievoli, in data 15.7.2009; – aveva denunciato i fatti, con conseguente apertura di un procedimento penale per il delitto di estorsione in concorso (artt. 110 e 629 c.p.), nel quale si era costituito parte civile; – il Tribunale di Ancona dichiarava estinto il reato nei confronti di un imputato per morte del reo, condannava l’altro imputato, previa riqualificazione del fatto, per il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza sulle persone (art. 393 c.p.), dichiarava la società responsabile civile, con condanna solidale al risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale cagionato alla parte civile, alla quale liquidava una provvisionale di € 20.000;
in sede di appello il fatto veniva riqualificato nel reato di violenza privata (art. 610 c.p.), dichiarato estinto per intervenuta prescrizione, ferme le statuizioni civili; – la Quinta Sezione Penale della Corte dichiarava inammissibili i ricorsi dell’imputato e della parte civile (Cass. pen. n. 25597/2019);
il G.D. rilevava che: – non ricorrevano i presupposti per la declaratoria di nullità del licenziamento, dovendosi semmai porre il problema dell’annullabilità della dichiarazione di dimissioni per violenza; – rispetto a tale ipotesi era decorso il termine quinquennale di prescrizione; – in ogni caso, le conseguenze pregiudizievoli scaturenti dalla violenza privata subita dovevano essere quantificate in relazione al pregiudizio effettivo, tenendo conto che dopo le dimissioni il ricorrente aveva ripreso a lavorare presso altra società con contratti a tempo determinato, salvo un periodo di sospensione; – il danno subito doveva essere quantificato nella perdita della retribuzione per il periodo di 9 mesi non lavorati;
l’istante andava ammesso al passivo a tale titolo per l’importo di € 12.027,06 in privilegio, oltre interessi, e per € 13.423,90 categoria chirografari a titolo di spese liquidate nelle sentenze di primo e secondo grado; .
il lavoratore proponeva opposizione allo stato passivo, insistendo nelle proprie pretese fondate sul prospettato diritto al percepimento delle retribuzioni con conseguente ricostituzione della posizione giuridica e con valutazione del credito come se il rapporto fosse proseguito senza soluzione di continuità, piuttosto che come risarcimento del danno;
con decreto n. 1038/2020 il Tribunale di Ancona rigettava l’opposizione, specificando che: – in sede penale era stata accertata la sussistenza di condotta criminosa di cui all’art. 610 c.p., con declaratoria che di tale fatto dovesse rispondere la società poi fallita ai sensi degli artt. 2049 c.c. e 185 c.p.;
da tale accertamento non discendeva la nullità dell’atto di dimissioni o un licenziamento, trattandosi di “reato in contratto”, in cui si punisce il comportamento tenuto da una delle parti nella fase di formazione o di esecuzione, per cui non rileva il contratto in sé, ma rilevano le modalità (frode, violenza, minacce) mediante le quali lo stesso viene concluso o eseguito, sicché, nel caso in oggetto, si trattava non di atto di licenziamento nullo, ma di dimissioni annullabili, a fronte delle quali il lavoratore non aveva esercitato tempestivamente l’azione nel termine di prescrizione di 5 anni, in assenza di atti interruttivi validi; – unico criterio risarcitorio utilizzabile rimaneva quello equitativo, comprendente il periodo di effettiva non occupazione, somma da considerarsi satisfattiva unita a quella assegnata in provvisionale in sede penale;;
come chiarito dalla giurisprudenza di questa Corte, non è possibile individuare un automatismo tra nullità e atto di autonomia privata posto in essere in violazione di una norma penale; nella prospettiva del diritto civile, non è sufficiente, per aversi nullità del negozio, che sia sanzionata, anche penalmente, la condotta di colui o coloro che l’hanno posto in essere, dovendo farsi oggetto di verifica, piuttosto, le finalità perseguite e gli interessi tutelati dalla norma violata; l’individuazione del trattamento civilistico dell’atto negoziale che si confronti con una fattispecie di reato dipende dal rapporto che, di volta in volta, si abbia tra reato e contratto o negozio (Cass. n. 17959/2020, n. 26097/2016);
tradizionalmente, quando il negozio si è concluso commettendo un reato, si usa distinguere l’ipotesi dei reati commessi nell’attività di conclusione di un contratto, cioè dei cd. “reati in contratto”, e l’ipotesi dei reati che consistono nel concludere un determinato contratto, in sé vietato, cioè dei cd. “reati contratto”;
in sintesi, la distinzione è la seguente: nel caso in cui la norma incriminatrice penale vieti proprio la stipulazione del contratto, in ragione dell’assetto degli interessi che esso mira a realizzare, si è al cospetto del cd. “reato-contratto” (ad es. la vendita di sostanze stupefacenti, la ricettazione ex art. 648 c.p., il commercio di prodotti con segni falsi ex art. 474 c.p.); allorché, al contrario, la norma penale sanzioni la condotta posta in essere da uno dei contraenti in danno dell’altro nella fase della stipulazione, rileva la categoria concettuale del cd. “reato in contratto” (si tratta, per lo più, delle fattispecie di reato caratterizzate dalla cooperazione artificiosa della vittima come la violenza privata ex art. 610 c.p., l’estorsione ex art. 629 c.p., la circonvenzione di persona incapace ex art. 643 c.p., l’usura ex art. 644 c.p.);
in altri termini, in tema di cause di nullità del negozio giuridico, per aversi contrarietà a norme penali ai sensi dell’art. 1418 c. c., occorre che il contratto sia vietato direttamente dalla norma penale, nel senso che la sua stipulazione integri reato, mentre non rileva il divieto che colpisca soltanto un comportamento materiale delle parti o di una sola di esse (Cass. n. 18016/2018);
in questa cornice interpretativa, è stato affermato che il contratto stipulato per effetto diretto del reato di estorsione è affetto da nullità ai sensi dell’art. 1418 c.c. (Cass. n. 17568/2022, n. 17959/2020 cit.);
diversamente, è stato affermato che le dimissioni del lavoratore rassegnate sotto minaccia di licenziamento sono annullabili per violenza morale, qualora venga accertata l’inesistenza del diritto del datore di lavoro di procedere al licenziamento per insussistenza dell’inadempimento addebitato al dipendente, dovendosi ritenere che, in detta ipotesi, il datore di lavoro, con la minaccia del licenziamento, persegua un risultato non raggiungibile con il legittimo esercizio del diritto di recesso (cfr. Cass. n. 41271/2021, n. 8298/2012, n. 24405/2008; cfr. anche, parallelamente, Cass. n. 18930/2016,
sull’annullabilità del contratto concluso per effetto di truffa di uno dei contraenti , è stato affermato che le dimissioni del lavoratore rassegnate sotto minaccia di licenziamento sono annullabili per violenza morale, qualora venga accertata l’inesistenza del diritto del datore di lavoro di procedere al licenziamento per insussistenza dell’inadempimento addebitato al dipendente, dovendosi ritenere che, in detta ipotesi, il datore di lavoro, con la minaccia del licenziamento, persegua un risultato non raggiungibile con il legittimo esercizio del diritto di recesso (cfr. Cass. n. 41271/2021, n. 8298/2012, n. 24405/2008; cfr. anche, parallelamente, Cass. n. 18930/2016, sull’annullabilità del contratto concluso per effetto di truffa di uno dei contraenti in danno dell’altro, atteso che il dolo costitutivo di tale delitto non è ontologicamente diverso, neanche sotto il profilo dell’intensità, da quello che vizia il consenso negoziale);
è stato anche chiarito che la violenza morale esercitabile dal datore di lavoro, che può determinare l’annullabilità delle dimissioni rassegnate dal lavoratore, può esprimersi secondo modalità variabili e indefinite, anche non esplicite (ad es., può agire anche solo come concausa, ed essere ravvisata nella minaccia dell’esercizio di un diritto, quando la relativa prospettazione sia immotivata e strumentale – Cass. n. 24363/2010); e che le dimissioni rassegnate dal lavoratore sono annullabili per violenza morale ove siano determinate da una condotta intimidatoria, oggettivamente ingiusta, tale da costituire una decisiva coazione psicologica, risolvendosi il relativo accertamento da parte del giudice di merito in un giudizio di fatto, incensurabile in cassazione se motivato in modo sufficiente e non contraddittorio (Cass. n. 16161/2015);
ora, dato atto che la questione della configurabilità delle dimissioni in esame quale conseguenza del reato di estorsione ovvero di violenza privata è stata ampiamente dibattuta nel procedimento penale (v. la motivazione di Cass. pen. n. 25597/2019 sul caso in esame), il Collegio osserva che essa è stata in tale sede definita nel secondo senso (reato di violenza privata);
. alla qualificazione in sede penale del comportamento del rappresentante del datore di lavoro – dalla quale discende la responsabilità civile di parte datoriale (qui rappresentata dalla curatela fallimentare) – quale reato di violenza privata vanno dunque ricollegate le condivisibili statuizioni del Tribunale in termini: a) di ricorrenza, nel caso concreto, di “reato in contratto”, determinante vizio del consenso per effetto di violenza morale su una delle parti del negozio; b) di conseguente annullabilità (e non nullità) dell’atto di dimissioni; c) di insussistenza del diritto al pagamento delle retribuzioni maturate da agosto 2009 a dicembre 2017, oggetto della domanda di ammissione al passivo come azionata in questa sede;
P.Q.M.
La Corte rigetta il primo e il sesto motivo di ricorso, assorbiti gli altri.
Fonte: Università degli Studi di Urbino Osservatorio per il monitoraggio permanente della legislazione e giurisprudenza sulla sicurezza sociale