La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 23578/2025, ha ribadito che il datore di lavoro non può ricorrere a controlli invasivi sulla vita privata di un dipendente assente per malattia se non esiste un fondato e concreto sospetto di illecito. L’uso di agenzie investigative per pedinare il lavoratore per 16 giorni — anche durante le festività, al di fuori delle fasce di reperibilità (10–12 e 17–19) e coinvolgendo familiari e terzi — è stato giudicato sproporzionato e illegittimo, violando i principi di proporzionalità, minimizzazione e rispetto della privacy (GDPR e art. 2 Cost.). Di conseguenza, il licenziamento basato su tali prove è nullo, poiché le stesse sono inutilizzabili in giudizio. La giurisprudenza chiarisce che il datore ha a disposizione strumenti legittimi (come la visita fiscale INPS) per verificare l’effettiva malattia: ricorrere a metodi eccessivi configura non solo un abuso di potere, ma potenzialmente un mobbing, sanzionabile ai sensi dell’art. 2087 c.c. e, in casi gravi, dell’art. 610-bis c.p. Il lavoratore può quindi difendersi in giudizio dimostrando l’assenza di un reale sospetto, l’ossessività del controllo e l’intento vessatorio, con documentazione, testimonianze e comunicazioni datoriali. La visita fiscale ripetuta non è di per sé illegittima, ma diventa tale se inserita in una strategia persecutoria, come confermato dal Tribunale di Teramo (sent. n. 248/2023).