Nella prassi del diritto del lavoro, si è assistito a un progressivo inasprimento della tutela del lavoratore nei confronti di condotte datoriali unilaterali, elusorie o in contrasto con i principi costituzionali e contrattuali. Una recente vicenda processuale, , offre un utile spunto per analizzare alcune figure di illecito contrattuale particolarmente ricorrenti: l’uso abusivo degli istituti del riposo, il demansionamento sostanziale, la violazione delle procedure di consultazione sindacale, e l’assenza del requisito della forza maggiore in caso di sospensione del rapporto.
L’illegittimità dell’utilizzo unilaterale di ferie e ROL
L’assorbimento unilaterale, da parte del datore di lavoro, delle ferie annuali e dei riposi occasionali legati (ROL), in assenza del consenso del lavoratore, costituisce una violazione dell’art. 36, comma 3, Cost., secondo cui il lavoratore ha diritto a ferie annuali retribuite e non può rinunziarvi. Il principio è stato ribadito con nettezza dalla Corte di Cassazione con ordinanza n. 13268/2018, che ha chiarito: «le ferie non possono essere imposte dal datore di lavoro in modo unilaterale, in assenza del consenso del lavoratore, neppure nell’interesse dell’azienda». Nel settore del turismo, regolato dal CCNL Turismo – Pubblici Esercizi ANPIT-CISAL, l’art. 10 richiede espressamente il previo consenso del lavoratore per l’imputazione delle ferie residue. Il mancato rispetto di tale requisito comporta la riqualificazione delle somme trattenute come retribuzione ordinaria, con diritto all’indennità sostitutiva per ferie e ROL non goduti, ai sensi dell’art. 2109 c.c. e dell’art. 10 del D.Lgs. n. 66/2003. La giurisprudenza ha inoltre riconosciuto la natura retributiva dell’indennità sostitutiva, come affermato dalla Corte di Cassazione, Sez. L, n. 9009/2024: «l’indennità sostitutiva di ferie non godute […] ha carattere retributivo e gode della garanzia prestata dall’art. 2126 c.c. a favore delle prestazioni effettuate con violazione di norme poste a tutela del lavoratore».
Il demansionamento e la violazione dell’art. 2103 c.c.
Il trasferimento unilaterale del lavoratore in una sede diversa da quella pattita, o l’assegnazione a mansioni non corrispondenti alla qualifica, configura una violazione dell’art. 2103 c.c., il quale vieta ogni riduzione unilaterale della qualifica professionale, salvo “comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive”. La Corte di Cassazione, con sentenza n. 31182/2021, ha precisato che: «il comportamento del datore di lavoro che lascia in condizione di inattività il dipendente, pur se non caratterizzato da uno specifico intento persecutorio ed anche in mancanza di conseguenze sulla retribuzione, viola l’art. 2103 c.c., sussistendo in capo al lavoratore non solo il dovere ma anche il diritto all’esecuzione della propria prestazione lavorativa, costituendo il lavoro non solo uno strumento di guadagno, ma anche una modalità di esplicazione del valore professionale e della dignità di ciascun cittadino». Nel caso in cui il luogo di lavoro costituisca un elemento essenziale del rapporto – come avviene in contesti di elevato pregio storico e professionale – la sua modifica unilaterale assume rilevanza non meramente logistica, ma sostanziale, integrando un demansionamento de facto. A ciò si aggiunge la violazione dell’art. 2087 c.c., ove il datore non adotti le misure idonee a tutelare l’integrità psico-fisica del lavoratore, specie in assenza di formazione, DPI e valutazione dei rischi ex D.Lgs. n. 81/2008
La nullità della procedura FIS per mancata consultazione sindacale
L’accesso al Fondo di Integrazione Salariale (FIS), disciplinato dal D.Lgs. n. 148/2015, è subordinato all’avvio di una procedura di consultazione con le organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale, ossia CGIL, CISL e UIL, ai sensi dell’art. 24, comma 1, del medesimo decreto. La giurisprudenza ha affermato con chiarezza che la rappresentatività sindacale deve essere accertata in concreto sulla base di parametri oggettivi, e non può derivare da iscrizioni sollecitate ad hoc dal datore di lavoro. In tal senso, la Corte di Cassazione, n. 24974/2025, ha escluso la legittimità di accordi sindacali sottoscritti con sigle minoritarie, specie quando questi ultimi abbiano “formalizzato la propria assenza ai tavoli”. La Corte costituzionale, con sentenza n. 125/2020, ha inoltre ribadito che la consultazione sindacale «costituisce una garanzia fondamentale del diritto al lavoro e alla partecipazione dei lavoratori alla gestione della crisi aziendale», non potendo essere elusa tramite accordi con sigle non rappresentative. Di conseguenza, la mancata o fittizia consultazione sindacale comporta la nullità della procedura FIS, con tutti gli effetti che ne derivano, ivi compresa l’illegittimità della sospensione del rapporto di lavoro.
L’inesistenza della forza maggiore ex art. 1463 c.c.
La sospensione del rapporto di lavoro per “forza maggiore” richiede l’esistenza di un evento sopravvenuto, imprevedibile e non imputabile al datore di lavoro, tale da rendere assolutamente ineseguibile la prestazione. Come affermato dalla Corte di Cassazione n. 25033/2006, «l’impossibilità della prestazione ex art. 1463 c.c. rileva ai fini dell’estinzione del rapporto obbligatorio solo quando derivi da causa a lui non imputabile». Al contrario, non può invocarsi la forza maggiore ove l’interruzione dell’attività derivi da inadempienze gestionali interne, quali il mancato pagamento del canone di locazione o la mancata manutenzione degli impianti. La Circolare INPS n. 120/2016 esclude espressamente l’accesso agli ammortizzatori sociali “nelle situazioni di difficoltà derivanti da crisi interne, da inadempienze contrattuali, da mancato versamento di canoni di locazione o da omissioni nella manutenzione e sicurezza dei locali”. Ulteriori sentenze, tra cui Cass. n. 20520/2019 e Cass. n. 27266/2018, hanno ribadito che «il datore di lavoro non può invocare l’impossibilità della prestazione quando questa sia il prodotto di una crisi aziendale da lui stesso determinata, anche sotto il profilo della cattiva gestione finanziaria o della mancata osservanza di obblighi contrattuali fondamentali».
Trattenute illegittime sul TFR e inversione dell’onere probatorio
L’anticipazione del Trattamento di Fine Rapporto è disciplinata dall’art. 2120, comma 5, c.c., che stabilisce: «Il prestatore di lavoro può chiedere, in presenza di particolari esigenze, l’anticipazione, in misura non superiore al settanta per cento, del trattamento di fine rapporto maturato. L’anticipazione può essere concessa una sola volta nel corso del rapporto di lavoro. La richiesta deve essere formulata per iscritto e indicare le esigenze che la giustificano». In assenza di richiesta scritta e motivata, le trattenute operate dal datore di lavoro sono nulle e devono essere riqualificate come retribuzione ordinaria. La Corte di Cassazione n. 13525/2025 ha chiarito: «le trattenute mensili effettuate in busta paga a titolo di TFR, in assenza di richiesta scritta e causale specifica da parte del lavoratore, sono illegittime e devono essere riqualificate come retribuzione ordinaria». In tali ipotesi, opera un’inversione dell’onere probatorio ai sensi dell’art. 2129 c.c., secondo cui «nel caso di inadempimento delle obbligazioni derivanti dal rapporto di lavoro, si presume la colpa del datore, salvo che provi di aver adempiuto o che l’inadempimento sia dovuto a causa a lui non imputabile». Tale principio è stato esteso anche ai casi di trattenute illegittime e demansionamento (Cass. n. 31182/2021; Cass. n. 13525/2025).
Il recesso per giusta causa ex art. 2119 c.c.
Di fronte a condotte datoriali gravemente inadempienti – quali la sospensione illegittima, il demansionamento, la violazione delle norme di sicurezza e il mancato pagamento della retribuzione – il lavoratore ha diritto a recedere per giusta causa ex art. 2119 c.c., con effetto immediato e senza preavviso. La giurisprudenza ha chiarito che «la giusta causa non richiede necessariamente un comportamento doloso o colposo del datore, ma qualsiasi inadempimento grave e oggettivamente rilevante, tale da incrinare irreparabilmente il rapporto di fiducia» (Cass. n. 18410/2019). Il recesso, se legittimamente esercitato, consente al lavoratore di prevalere su ogni contestazione aziendale e di far valere il diritto al TFR integrale (calcolato anche sulle somme illegittimamente trattenute), all’indennità sostitutiva per ferie non godute, all’indennità in luogo del preavviso ex art. 2118 c.c., nonché al risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale per violazione della dignità professionale.
L’analisi della vicenda processuale sopra esaminata evidenzia un sistema integrato di tutele a favore del lavoratore, rafforzato da una giurisprudenza sempre più sensibile ai profili di buona fede, trasparenza e rispetto della dignità professionale. In tale contesto, il datore di lavoro non può più utilizzare strumenti normativi – quali il FIS, la sospensione per forza maggiore o l’uso delle ferie – in modo strumentale o elusivo. Ogni violazione di norme inderogabili – costituzionali, legislative o contrattuali – può legittimare non solo la richiesta di risarcimento, ma anche il recesso immediato per giusta causa, con tutte le relative conseguenze patrimoniali.

