Immaginate di arrivare al lavoro una mattina e scoprire che, senza preavviso né consultazione, il vostro datore ha deciso di applicarvi un nuovo contratto collettivo nazionale (CCNL). Le regole sulle ferie, gli straordinari, le maggiorazioni, persino la retribuzione: tutto improvvisamente cambia. Eppure il contratto collettivo in vigore aveva una data di scadenza precisa—ancora lontana. Può un’azienda fare una cosa del genere? Assolutamente no, secondo la Corte di Cassazione, che con l’ordinanza n. 29737 dell’11 novembre 2025 ha tracciato un confine netto tra libertà d’impresa e rispetto della contrattazione collettiva.
Il principio cardine: il CCNL non si strappa a piacimento
La Suprema Corte ha ribadito con forza un principio fondamentale del diritto del lavoro: un datore di lavoro non può recedere unilateralmente da un contratto collettivo nazionale che abbia una data di scadenza. Questo principio trova fondamento nell’art. 2074 del c.c., che regola la durata dei contratti collettivi. Se un CCNL è stato sottoscritto con una scadenza determinata – ad esempio al 31 dicembre 2026 – il datore è vincolato a rispettarlo fino a quel momento, senza eccezioni. La Cassazione ha chiarito che la disdetta unilaterale è illegittima: non basta l’accordo con alcuni sindacati “più accomodanti” per liberarsi degli obblighi previsti dal contratto originario. Per modificare o disdire anticipatamente un CCNL, è necessario il consenso di tutti i soggetti firmatari iniziali, compresi i sindacati che eventualmente dissentono.
L’aggiramento sindacale: oltre la forma, la sostanza
Il caso esaminato dalla Corte riguardava un’azienda che, pur di cambiare il regime contrattuale di una parte dei suoi dipendenti, aveva stipulato un cosiddetto “accordo di armonizzazione” con alcune sigle sindacali, ignorando deliberatamente un’altra organizzazione rappresentativa dei lavoratori. Ma il vero affronto non era solo nella mancata consultazione: l’azienda aveva comunicato direttamente ai dipendenti il cambio di CCNL, accompagnando la notifica con la richiesta di firma “per ricevuta e accettazione”. La Cassazione ha smontato questa strategia con nettezza. Quella firma, ha precisato la Corte, ha un contenuto meramente ricognitivo: dimostra solo che il lavoratore ha preso visione della comunicazione, non che abbia accettato il nuovo contratto collettivo. Tentare di far passare un atto burocratico come un consenso individuale al mutamento del CCNL è, secondo i giudici, un artificio inaccettabile.
Violazione della libertà sindacale
Ancora più grave, secondo la Cassazione, è stato l’intento di sminuire il ruolo del sindacato dissenziente. Aggirare una rappresentanza legittima e tentare di sostituirla con accordi “fai-da-te” non solo lede il contratto, ma viola il principio di libertà sindacale sancito dall’art. 39 della Costituzione e l’art. 28 dello Statuto dei Lavoratori (Legge 300/1970), che tutela i lavoratori da condotte antisindacali. La Corte ha quindi qualificato il comportamento dell’azienda come condotta antisindacale, non solo illegittima, ma lesiva del sistema democratico della contrattazione collettiva.
Il CCNL non è un optional
Questa ordinanza è un monito chiaro per tutti i datori di lavoro: il contratto collettivo non è un pezzo di carta che si può ignorare a piacimento, né un ostacolo da aggirare con accordi parziali o comunicazioni unilaterali ai dipendenti. Finché è in vigore, il CCNL vincola tutte le parti, e la sua modifica anticipata richiede il consenso unanime dei firmatari originari. Altrimenti, si rischia non solo l’annullamento degli atti, ma anche l’accusa di condotta antisindacale—con tutte le conseguenze legali e reputazionali del caso. In un momento in cui il dialogo sociale è più fragile che mai, sentenze come questa ricordano che la contrattazione collettiva è un pilastro, non un optional, del nostro sistema di relazioni industriali.

