In azienda, come nella vita, la provocazione è dietro l’angolo. Un commento infelice, un tono sarcastico, una parola di troppo davanti ai colleghi: il clima si surriscalda, l’adrenalina sale, e in un istante la discussione verbale può trasformarsi in un gesto di cui ci si pentirà per sempre. Ma attenzione: se reagisci agli insulti con la violenza fisica, perdi non solo la ragione, ma anche il posto di lavoro. A ribadirlo con forza è la Corte d’Appello di Milano, con la sentenza n. 853/2025 del 31 ottobre 2025, che ha confermato il licenziamento per giusta causa di un dipendente passato alle mani dopo essere stato insultato. Non contano le intenzioni. Non conta chi ha iniziato. Non conta neppure il contesto “infuocato” della discussione. Chi usa la forza per rispondere a un affronto sul posto di lavoro rompe il vincolo di fiducia con il datore — e quel vincolo, una volta spezzato, non si ricuce.
Il principio di fondo: la violenza non è mai una risposta legittima
La vicenda riguarda un dipendente che, dopo un acceso litigio con un collega — caratterizzato da “toni molto accesi” e insulti — ha reagito colpendolo fisicamente. Nonostante fosse stato provocato, il lavoratore ha visto confermato il proprio licenziamento, perché — spiegano i giudici — “aggredire un collega, anche in risposta a un clima litigioso con toni molto accesi, è un comportamento che non permette la prosecuzione, nemmeno provvisoria, del rapporto di lavoro”.
La sentenza si fonda sull’articolo 2119 del Codice civile, che disciplina il recesso per giusta causa:
«Il datore di lavoro può recedere dal contratto di lavoro quando il fatto del prestatore di lavoro è tale da non consentire la prosecuzione, anche soltanto in via provvisoria, del rapporto».
E qui sta il nodo cruciale: la violenza fisica — anche se reattiva — è considerata un fatto di tale gravità da rendere insostenibile qualsiasi forma di prosecuzione del rapporto. Non è una sanzione punitiva, ma la conseguenza logica della rottura del patto fiduciario che è alla base di ogni rapporto di lavoro.
Non basta leggere il contratto: conta la realtà dei fatti
Il dipendente licenziato ha tentato di difendersi sostenendo che il contratto collettivo prevedeva il licenziamento solo per “vie di fatto gravi”. Ma i giudici hanno ribaltato questa logica formale, richiamando un principio consolidato dalla Corte di Cassazione (sentenza n. 23881/2022):
«Non basta leggere il contratto: bisogna guardare alla realtà dei fatti. Il giudice ha il dovere di valutare la gravità concreta di ciò che è accaduto».
In altre parole, non esiste un elenco automatico di comportamenti “licenziabili”. Ogni caso va valutato in concreto, tenendo conto dell’intensità della condotta, del contesto e, soprattutto, dell’impatto sulla fiducia tra datore e dipendente. E in questo caso, il gesto violento — per quanto scatenato da una provocazione — ha cancellato ogni possibilità di rinnovare quel legame.
Chi ha cominciato? Irilevante
Uno degli aspetti più controintuitivi — e più importanti — della sentenza è che non conta chi ha dato il via alla lite. Il lavoratore ha insistito nel tentativo di dimostrare che era stato provocato, sperando in un’attenuante. Ma la Corte d’Appello è stata implacabile:
«Ciò che conta è la distinzione tra una reazione puramente difensiva e una reazione aggressiva. Se vi limitate a parare un colpo o a scappare, siete salvi. Ma se rispondete all’insulto o alla spinta colpendo a vostra volta, state aggredendo».
In quel preciso momento, si passa dalla parte del torto. Non si tratta più di difendersi, ma di attaccare — e l’attacco fisico in ambito lavorativo è inammissibile, punto.
Tolleranza zero: entrambi a casa
A conferma della severità dell’approccio, i giudici hanno sottolineato un dettaglio agghiacciante: entrambi i protagonisti della rissa sono stati licenziati. Non c’è spazio per distinguere il “cattivo” dal “meno cattivo”. Chi partecipa a una rissa sul posto di lavoro — che sia stato il provocatore o il provocato — assume un comportamento incompatibile con il rispetto delle regole minime di convivenza professionale.
Come scrive la sentenza:
«Partecipare a una rissa, indipendentemente dal ruolo giocato, è un rischio calcolato malissimo».
In un contesto lavorativo sempre più fragile e sottoposto a pressione, la capacità di gestire i conflitti con la parola, non con il pugno, non è più una virtù: è una condizione essenziale per tenersi il posto.
La calma è una competenza, non una debolezza
Questa sentenza non è solo una lezione di diritto del lavoro: è un monito etico. Il legislatore, i giudici e la “coscienza sociale” — come recita la motivazione — condannano la violenza sul lavoro senza se e senza ma. Non esistono giustificazioni accettabili per chi usa le mani al posto delle parole. E per chi pensa ancora che “farsela pagare” sia un diritto, la legge ha una risposta chiara e severa: Puoi perdere la calma in un secondo. Ma il tuo lavoro, lo perdi per sempre.

