Di Valentina Riccitelli
Da anni mi occupo di consulenza e, insieme al consulente del lavoro e agli avvocati dello studio, continuo a sorprendermi. Ogni mese ci troviamo di fronte a casi che suscitano perplessità: non tanto per la loro complessità giuridica, quanto per la superficialità con cui molti imprenditori gestiscono le buste paga o per gli errori commessi nell’inquadramento contrattuale dei dipendenti da parte dei consulenti del lavoro. Ciò che viene spesso considerato un semplice “fastidioso adempimento burocratico” costituisce invece uno dei pilastri fondamentali per garantire la stabilità aziendale. Le recenti sentenze della Corte di Cassazione lo confermano in maniera chiara e inequivocabile.
Il rischio nascosto dietro una busta paga sbagliata
Cominciamo dal punto più concreto: la busta paga. Non è solo un foglio con numeri. È un documento giuridico, fiscale e previdenziale. Come ricorda Factorial, un errore — anche minimo — può costare all’azienda da 150 a 7.200 euro di sanzioni, a seconda della gravità e del numero di lavoratori coinvolti. Ma non è solo una questione di multe.
Il Consulente del Lavoro sottolinea un principio fondamentale: la responsabilità ultima è sempre del datore di lavoro, anche se l’errore è stato commesso da un consulente esterno. Questo mi fa riflettere: quante volte ho sentito imprenditori dire “ma l’ho dato in outsourcing, non è colpa mia”? Eppure, la legge non ammette scuse. Il datore di lavoro è il garante della correttezza del cedolino.
E gli errori più comuni? Straordinari non pagati, ferie non scalate, detrazioni fiscali mancanti, contributi INPS calcolati male. Tutti elementi che, se trascurati, si accumulano nel tempo. Il Consulente del Lavoro ricorda che il termine di prescrizione per le differenze retributive è di 5 anni, mentre per le ferie non godute sale a 10 anni dalla cessazione del rapporto. Un errore di oggi può tornare a bussare alla porta dell’azienda molto tempo dopo.
Mansioni superiori: non è un favore, è un diritto
Ma il vero nodo — e qui concordo pienamente con Riccardo Zanon e con lo Studio Legale Fucci — è l’inquadramento contrattuale. Immaginiamo un impiegato che, col tempo, assume responsabilità da quadro: coordinamento di colleghi, gestione di progetti, autonomia decisionale. Se non viene reinquadrato, non si tratta di un “extra” che fa per spirito di servizio. Si tratta di mansioni superiori, e la legge è chiara.
L’articolo 2103 del Codice Civile stabilisce che, in caso di assegnazione a mansioni superiori, il lavoratore ha diritto al trattamento corrispondente all’attività svolta, e l’assegnazione diviene definitiva dopo sei mesi (o il periodo previsto dal CCNL), salvo diversa volontà del lavoratore.
Il Centro Studi Et De Milan e DirittoLavoro.it aggiungono un dettaglio cruciale: se il lavoratore percepisce un superminimo, questo va defalcato dalla differenza retributiva (principio di “assorbimento”). Ma attenzione: non sempre è così.
La svolta della Cassazione: il superminimo non è sempre assorbibile
Qui entra in gioco una recente e importantissima pronuncia della Corte di Cassazione, l’ordinanza n. 11771 del 5 maggio 2025, ripresa da Lavorosi.it, Studio Cataldi e Lexced. La Suprema Corte ha chiarito un punto fondamentale: il superminimo è assorbibile solo negli aumenti dei minimi tabellari previsti da legge o CCNL, non nella progressione economica dovuta al passaggio di livello.
Nel caso esaminato, un dipendente di Amazon aveva ottenuto il riconoscimento del passaggio al livello superiore dopo 18 mesi di servizio, come previsto dal CCNL del Terziario. La società aveva tentato di assorbire il superminimo già corrisposto, ma la Cassazione ha confermato la sentenza di merito: no, il superminimo non si assorbe in questo caso, perché il passaggio di livello non è un semplice “aumento dei minimi”, ma una diversa dinamica salariale legata all’esercizio delle mansioni e all’anzianità di servizio.
Concordo pienamente con questa interpretazione. Come scrive lo Studio Cataldi, la distinzione è fondamentale: gli aumenti collettivi (es. rinnovi contrattuali) sono una cosa; la progressione professionale è un’altra. Confonderle significherebbe svuotare di senso il valore del superminimo come riconoscimento individuale delle competenze del lavoratore.
E qui emerge un altro aspetto cruciale: la redazione delle clausole contrattuali. La Cassazione ha ribadito che, se nella lettera di assunzione o in un atto successivo si specifica che il superminimo è assorbibile “solo in caso di aumenti dei minimi tabellari”, allora non si applica al passaggio di livello. Questo dimostra quanto sia essenziale chiarezza e precisione nella stesura dei documenti. Un’ambiguità oggi può generare un contenzioso domani.
Il costo reale dell’errore: non solo economico
Non posso non citare l’analisi di AWMS System, che mette in relazione bassi salari e abbandono del posto di lavoro. Ma il discorso vale anche per l’errato inquadramento: un dipendente che svolge mansioni superiori senza riconoscimento economico o professionale si sente svalorizzato. Il risultato? Demotivazione, turnover, perdita di talenti. E, spesso, azioni legali.
Come nota lo Studio Premoli, “il software è utile, ma non può pensare al posto tuo”. È vero. La tecnologia aiuta, ma la responsabilità resta umana. Serve un occhio esperto che verifichi non solo i numeri, ma anche la coerenza tra mansioni effettive e inquadramento contrattuale.
Cosa fare in concreto?
Alla luce di tutto ciò, ecco cosa consigliamo:
- Verificare mensilmente la corrispondenza tra mansioni svolte e livello contrattuale.
- Aggiornarsi costantemente su rinnovi contrattuali, aliquote fiscali e novità normative.
- Redigere con precisione le clausole sui superminimi, specificando esattamente in quali casi sono assorbibili.
- Coinvolgere un consulente del lavoro non solo per l’elaborazione, ma per una valutazione strategica del costo del lavoro.
- Comunicare con trasparenza ai dipendenti eventuali errori e le modalità di rettifica, come suggerisce Factorial.
Conclusione: la serenità nasce dalla correttezza
Rileggendo le sentenze della Cassazione e gli articoli di settore, una cosa è chiara: la correttezza nella gestione del personale non è un costo, ma una forma di prevenzione. Prevenzione da sanzioni, da contenziosi, da turnover, da danni reputazionali.
E alla domanda che Riccardo Zanon pone ai suoi lettori — “Vale la pena che un errore di inquadramento comprometta il futuro della tua azienda?” — la mia risposta, dopo anni di esperienza e alla luce delle più recenti pronunce giurisprudenziali, è un netto no.
Perché, come ha insegnato la Cassazione con l’ordinanza n. 11771/2025, i diritti dei lavoratori non sono dettagli trascurabili. Sono il fondamento di un rapporto di lavoro sano, equo e, soprattutto, sostenibile nel tempo.

