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Il Paradosso delle Aziende Pubbliche: Obbligate ad Assumere, Ma Spesso Invisibili ai Disabili

Il Paradosso delle Aziende Pubbliche: Obbligate ad Assumere, Ma Spesso Invisibili ai Disabili

C’è un paradosso che lacera il tessuto del nostro welfare e della nostra etica civile: da una parte, lo Stato e gli enti locali controllano centinaia di società — dalle grandi come Eni, Enel e Poste Italiane, fino a piccole municipalizzate — che per legge devono assumere persone con disabilità iscritte al collocamento mirato. Dall’altra, chi cerca lavoro con una disabilità si scontra con porte chiuse, silenzi, liste d’attesa infinite e un sistema che, nella pratica, sembra volerlo dimenticare.

La legge 68/1999 è chiara: tutte le aziende con almeno 15 dipendenti — pubbliche o private — devono riservare una quota dei loro posti a persone con disabilità. Per le aziende con più di 50 dipendenti, la quota obbligatoria è del 7%. Eppure, come denuncia l’XI° Relazione al Parlamento (dati 2021, già vecchi e insufficienti), le assunzioni sono crollate: da 58mila nel 2019 a 41mila nel 2021. Un terzo in meno. E il trend non accenna a invertirsi.

Ma il vero dramma si consuma nelle società a controllo pubblico — quelle partecipate da Stato, Regioni, Province o Comuni. Sono aziende che gestiscono servizi pubblici, energia, trasporti, finanza. Sono pagate (anche) con i nostri soldi. Dovrebbero essere il faro dell’inclusione. E invece?

Le società a partecipazione pubblica non sono enti pubblici “puri”, ma nemmeno aziende private: sono un ibrido. Dal 2016, con il Testo Unico sulle società partecipate (D.Lgs. 175/2016), il legislatore ha voluto razionalizzare un settore caotico, spesso usato per eludere regole e controlli. Tra queste regole, c’è anche quella del reclutamento del personale.

L’articolo 19 del T.U. impone a queste società di adottare procedure selettive “nel rispetto dei principi di trasparenza, pubblicità e imparzialità” — principi che richiamano quelli del pubblico impiego (art. 35 D.Lgs. 165/2001). In teoria, questo dovrebbe garantire anche l’applicazione della legge 68/99. In pratica, però, si crea un cortocircuito.

Queste società, pur controllate dal pubblico, operano con logiche “private”. Hanno bilanci da rispettare, obiettivi di efficienza fissati dai soci pubblici (come ricorda OpenPolis), e spesso preferiscono assumere con contratti flessibili o attraverso canali “fiduciari” — talvolta legati alla politica — piuttosto che aprire bandi trasparenti o rispettare le quote obbligatorie.

Non è (solo) cattiveria. È un sistema che disincentiva l’inclusione:

Sanzioni ridicole e mai applicate. La multa per non aver assunto un disabile è di 196 euro al giorno. Può sembrare molto, ma in realtà è una cifra irrisoria per un’azienda. Soprattutto se le ispezioni sono pochissime: nel 2021, solo 141 sanzioni comminate in tutta Italia (dati Ispettorato Nazionale del Lavoro, riportati da Il Fatto Quotidiano). E i dati non sono nemmeno centralizzati: ognuno fa da sé.
Procedure complesse e lente. Il collocamento mirato, nato con buone intenzioni, oggi è un labirinto burocratico. Le liste d’attesa sono lunghissime, soprattutto al Sud. Le aziende, anche quelle pubbliche, preferiscono non “perdere tempo”.
Mancanza di cultura e formazione. Spesso, i manager delle partecipate — nominati con logiche politiche o di potere, come evidenzia l’analisi di OpenPolis — non hanno formazione sull’inclusione. Vedono la disabilità come un costo, non come una risorsa. E non sanno come gestire adeguatamente l’inserimento lavorativo.
Assenza di trasparenza e controllo. Come denuncia Marino Bottà (Andel), i dati sono vecchi, frammentati e “manipolabili”. Non c’è un monitoraggio serio su quante persone con disabilità lavorano davvero nelle partecipate pubbliche. E senza dati, non ci sono politiche efficaci.
Il Dramma Umano dietro i Numeri

Dietro ogni numero c’è una persona. Una persona che vuole lavorare, essere autonoma, sentirsi utile. Alessandro Chiarini, presidente del Coordinamento Nazionale Famiglie con Disabilità (Confad), parla di “situazione drammatica”. Le famiglie si sentono “dimenticate”. E hanno ragione.

Quando un’azienda pubblica — che dovrebbe essere un esempio — non rispetta la legge 68/99, non sta solo violando un obbligo giuridico. Sta umiliando ed emarginando una persona. Sta dicendo che quella persona non è degna di far parte della comunità produttiva. Sta tradendo lo spirito della Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità, che l’Italia ha ratificato.

Non basta lamentarsi. Serve una rivoluzione culturale e normativa:

Riformare il collocamento mirato. Rendere le procedure più snelle, digitali, veloci. Introdurre incentivi veri per le aziende che assumono stabilmente.
Inasprire le sanzioni. Multe proporzionali al fatturato, non a un tariffario fisso. E ispezioni mirate e frequenti, soprattutto nelle grandi partecipate pubbliche.
Obbligo di reportistica. Ogni società a controllo pubblico dovrebbe pubblicare annualmente, in modo trasparente, il numero di dipendenti con disabilità, le assunzioni effettuate e le eventuali deroghe richieste.
Formazione obbligatoria. Per tutti i manager e i responsabili delle risorse umane delle partecipate, corsi obbligatori sull’inclusione lavorativa e sulla gestione della disabilità.
Coinvolgere le associazioni. Le organizzazioni delle persone con disabilità devono essere parte attiva nella progettazione delle politiche di inserimento lavorativo.
Conclusione: Il Cambiamento Parte da Noi

Le società a controllo pubblico sono un braccio dello Stato. Se lo Stato non riesce a far rispettare la legge nelle sue stesse aziende, come può pretendere che il settore privato lo faccia?

L’inclusione lavorativa delle persone con disabilità non è un optional, né un atto di carità. È un diritto fondamentale, un dovere civile e un’opportunità per tutta la società.

È tempo che le aziende pubbliche smettano di essere complici di un sistema che esclude. È tempo che diventino, finalmente, ciò che dovrebbero essere: laboratori di innovazione sociale, modelli di buone pratiche, luoghi in cui il diritto al lavoro diventa realtà, per tutti.

L’inclusione lavorativa delle persone con disabilità, per quanto basata su principi condivisibili, si scontra con un sistema che la disincentiva in modo evidente. A partire dalle sanzioni previste per chi non assume disabili: 196 euro al giorno per azienda può sembrare una cifra significativa, ma si rivela del tutto trascurabile per gran parte delle imprese, soprattutto quando i controlli sono ridotti al minimo. Nel 2021, infatti, sono state applicate appena 141 multe in tutta Italia, secondo i dati dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro riportati da Il Fatto Quotidiano. Inoltre, l’assenza di una gestione centrale dei dati lascia spazio a frammentazione e autonomia disorganizzata.

Anche il collocamento mirato, concepito con buone intenzioni, si è trasformato in un vero e proprio pantano burocratico. Procedure lente e intricate, unite a lunghissime liste d’attesa – particolarmente problematiche nel Sud Italia – spingono molte aziende, inclusi gli enti pubblici, a rinunciare, preferendo evitare una perdita di tempo percepita come inutile.

La carenza di cultura e formazione sul tema aggrava ulteriormente il problema. I manager delle aziende partecipate pubbliche, spesso nominati seguendo logiche politiche anziché meritocratiche (come evidenziato da OpenPolis), mancano frequentemente di competenze in materia di inclusione. Di conseguenza, la disabilità viene percepita più come un costo che come un’opportunità, e l’inserimento lavorativo adeguato rimane un miraggio.

A questo si aggiunge una profonda mancanza di trasparenza e monitoraggio. I dati disponibili sono frammentati, datati e potenzialmente manipolabili, come denunciato da Marino Bottà (Andel). Non esiste un controllo accurato su quante persone con disabilità siano effettivamente impiegate nelle aziende partecipate pubbliche, e senza numeri affidabili diventa impossibile definire politiche serie ed efficaci. Un sistema, dunque, che anziché agevolare l’inclusione finisce per ostacolarla.

Dietro ogni numero c’è una persona. Una persona che vuole lavorare, essere autonoma, sentirsi utile. Alessandro Chiarini, presidente del Coordinamento Nazionale Famiglie con Disabilità (Confad), parla di “situazione drammatica”. Le famiglie si sentono “dimenticate”. E hanno ragione.

Quando un’azienda pubblica — che dovrebbe essere un esempio — non rispetta la legge 68/99, non sta solo violando un obbligo giuridico. Sta umiliando ed emarginando una persona. Sta dicendo che quella persona non è degna di far parte della comunità produttiva. Sta tradendo lo spirito della Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità, che l’Italia ha ratificato.

Non basta limitarsi a lamentarsi; è indispensabile avviare una rivoluzione culturale e normativa che affronti concretamente le sfide dell’inclusione lavorativa. Riformare il collocamento mirato rappresenta un primo passo essenziale: le procedure devono essere rese più snelle, digitalizzate e rapide, accompagnate da veri incentivi per le aziende che assumono in modo stabile. Parallelamente, occorre un inasprimento delle sanzioni con multe proporzionali al fatturato, invece di basarsi su un tariffario fisso, e ispezioni frequenti e mirate, soprattutto nelle grandi partecipate pubbliche.

Trasparenza e responsabilità sono pilastri irrinunciabili. Ogni società a controllo pubblico dovrebbe pubblicare annualmente un rapporto trasparente che indichi il numero di dipendenti con disabilità, le assunzioni effettuate e le eventuali deroghe richieste. La formazione obbligatoria per manager e responsabili delle risorse umane delle partecipate è un altro tassello fondamentale; corsi specifici sull’inclusione lavorativa e sulla gestione della disabilità devono diventare una prassi consolidata. Infine, le associazioni delle persone con disabilità devono essere coinvolte attivamente nella progettazione delle politiche, garantendo un contributo diretto e qualificato per costruire soluzioni che rispondano alle reali esigenze di chi vive queste esperienze quotidianamente.

Le società a controllo pubblico sono un braccio dello Stato. Se lo Stato non riesce a far rispettare la legge nelle sue stesse aziende, come può pretendere che il settore privato lo faccia?

L’inclusione lavorativa delle persone con disabilità non è un optional, né un atto di carità. È un diritto fondamentale, un dovere civile e un’opportunità per tutta la società.

È tempo che le aziende pubbliche smettano di essere complici di un sistema che esclude. È tempo che diventino, finalmente, ciò che dovrebbero essere: laboratori di innovazione sociale, modelli di buone pratiche, luoghi in cui il diritto al lavoro diventa realtà, per tutti.

Perché se anche lo Stato “non vuole” i disabili, chi li vorrà mai?

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