Il whistleblowing non è più un mero fenomeno marginale o eccezionale, bensì un istituto giuridico sempre più centrale nel panorama del diritto del lavoro, dell’etica pubblica e della compliance aziendale. La sua rilevanza deriva dal ruolo cruciale che il segnalatore civico svolge nel contrastare illeciti, corruzione, abusi di potere e condotte illecite all’interno di enti pubblici e privati. Tuttavia, la protezione effettiva di chi segnala non può essere garantita se non si affronta un nodo decisivo: il riparto dell’onere probatorio. La recente normativa italiana, in recepimento della Direttiva (UE) 2019/1937, ha introdotto un meccanismo di inversione dell’onere della prova a favore del whistleblower, con l’obiettivo dichiarato di superare le storiche difficoltà di dimostrare il nesso causale tra la segnalazione e la successiva ritorsione subita. Ma questa riforma sta funzionando davvero?
La giurisprudenza più recente offre risposte contraddittorie, e proprio per questo vale la pena ripercorrere con attenzione il percorso normativo e interpretativo che ha portato — almeno in parte — a un mutamento di prospettiva.
Il quadro normativo: dall’art. 54-bis del D.Lgs. 165/2001 al D.Lgs. 24/2023
Già l’abrogato art. 54-bis, comma 7, del D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165 prevedeva un’onere probatorio a carico dell’amministrazione pubblica: essa doveva dimostrare che eventuali misure ritorsive o discriminatorie non fossero motivate dalla segnalazione stessa. Si trattava, però, di una disciplina circoscritta al settore pubblico e ancora incerta nei suoi effetti pratici. Il vero punto di svolta è la Direttiva (UE) 2019/1937, il cui considerando 44 afferma con chiarezza che “una protezione efficace delle persone segnalanti presuppone una definizione ampia del concetto di ritorsione, in cui rientri qualsiasi azione od omissione che si verifica nel contesto lavorativo e che arrechi pregiudizio agli informatori”. Inoltre, la Direttiva non impedisce al datore di lavoro di adottare decisioni lavorative non determinate dalla segnalazione — un equilibrio necessario tra tutela del segnalatore e autonomia organizzativa.
Tale impostazione è stata recepita in Italia con il D.Lgs. 10 marzo 2024, n. 23 (ma pubblicato nella Gazzetta Ufficiale il 31 marzo 2023, con efficacia dal 2023), in particolare con l’art. 17, il cui contenuto è decisivo:
Art. 17, comma 1: “Gli enti o le persone di cui all’articolo 3 non possono subire alcuna ritorsione.” Comma 3: “Si presume, salvo prova contraria, che il danno sia conseguenza di tale segnalazione, divulgazione pubblica o denuncia all’autorità giudiziaria o contabile.” Comma 4: “Costituiscono ritorsione, tra l’altro, il licenziamento, la sospensione, la modifica del luogo di lavoro o delle mansioni, la demansionamento, la mancata promozione, la revoca di benefici, e ogni altra misura pregiudizievole.”
Queste disposizioni introducono una presunzione relativa di ritorsione, con conseguente onere della prova a carico del datore di lavoro, chiamato a dimostrare che la misura adottata è stata determinata da ragioni estrinseche alla segnalazione. Si tratta di un’innovazione sostanziale rispetto alla tradizionale regola dell’art. 2697 c.c., che richiede alla parte attrice di provare il fatto costitutivo del proprio diritto.
La giurisprudenza: due orientamenti contrastanti
La dottrina ha immediatamente colto il potenziale rivoluzionario di questa inversione probatoria. Ma la giurisprudenza non ha tardato a mostrare incertezze. Un primo filone, maggioritario nella prassi pre-2024, ha finito per neutralizzare la tutela legislativa, imponendo al lavoratore l’onere di dimostrare in via diretta e stringente il nesso causale tra segnalazione e ritorsione. Emblematica, in tal senso, è la sentenza della Corte di Cassazione, ord. del 6 dicembre 2024, n. 31343, che affermava:
“Non sono emersi atti discriminatori o ritorsivi da parte della società, non essendo tali l’avvio di procedimento disciplinare sulla base di intervento delle forze dell’ordine chiamate in un contesto di contrasti tra dipendenti; e quindi non vi era obbligo di ulteriori dimostrazioni da parte della società.”
Tale approccio, come già osservato da chi scrive in un commento su Rivista Labor del 2025, rischierebbe di contraddire il dettato normativo primario e persino di violare il diritto a una tutela giurisdizionale effettiva garantito dagli artt. 6 e 47 della CEDU. La stessa Corte EDU, nella sentenza Gawlik v. Liechtenstein del 16 febbraio 2021, ha riconosciuto che il whistleblowing è espressione della libertà di espressione di cui all’art. 10 CEDU.
Il cambio di rotta: le pronunce del Tribunale di Milano del 2025
Tuttavia, nel corso del 2025 si assiste a un decisivo mutamento di prospettiva, incarnato da due pronunce del Tribunale di Milano.
1. La sentenza del 6 giugno 2025, n. 1680
In questa vicenda, un responsabile commerciale aveva partecipato in forma anonima a una Global Survey aziendale, criticando il comportamento della propria responsabile. Nonostante l’anonimato, fu identificato e, poco dopo aver inoltrato una segnalazione formale tramite il canale interno di whistleblowing, fu licenziato per giusta causa sulla base di addebiti disciplinari. Il Tribunale, in un’analisi rigorosa, ha rilevato la stretta consequenzialità temporale tra la segnalazione e il licenziamento, nonché l’assenza di un motivo alternativo valido. Applicando l’art. 17, comma 2, del D.Lgs. n. 24/2023, ha correttamente riconosciuto:
“Una presunzione relativa di ritorsione per le misure sfavorevoli adottate dopo una segnalazione, con il conseguente onere della prova a carico del datore di lavoro.”
Poiché l’azienda non ha fornito prova sufficiente della estraneità della segnalazione al licenziamento, il Tribunale ha dichiarato la nullità del recesso ai sensi dell’art. 1345 c.c., applicando la tutela reintegratoria forte di cui all’art. 2, comma 1, del D.Lgs. n. 23/2015. La sentenza è stata accolta con favore in dottrina e rappresenta un passaggio storico: per la prima volta, un tribunale applica correttamente l’inversione probatoria prevista dalla normativa vigente.
2. La sentenza del 3 marzo 2025, n. 985
Più complessa è invece la seconda vicenda. La ricorrente, membro dell’Organismo di Vigilanza, aveva denunciato pressioni per favorire uno studio legale in una gara. A seguito della segnalazione, aveva subito minacce, demansionamento e, dopo un lungo periodo di astensione per motivi di salute, era stata licenziata per ragioni economiche nel 2024. Il Tribunale ha ritenuto illegittimo il licenziamento, poiché non dimostrata la riduzione del fatturato né la soppressione del posto di lavoro. La società non ha fornito elementi sufficienti a giustificare il provvedimento. Tuttavia, non ha riconosciuto la nullità né applicato la tutela speciale del whistleblowing, perché non provata la ritorsione. Questa decisione solleva un interrogativo cruciale: la presunzione di ritorsione di cui all’art. 17 D.Lgs. 24/2023 deve trovare applicazione solo se la segnalazione è recente? O la semplice illegittimità del licenziamento, unita a un contesto vessatorio, non dovrebbe far scattare comunque l’inversione probatoria?
Verso una tutela davvero effettiva?
È evidente che la normativa italiana ha compiuto un passo decisivo verso la protezione reale del segnalatore, liberandolo dall’obbligo di provare l’intento ritorsivo del datore — un obiettivo difficile, se non impossibile, in contesti organizzativi opachi o verticali. Tuttavia, l’effettività di questa tutela dipende dalla corretta applicazione da parte dei giudici. La sentenza del 6 giugno 2025 del Tribunale di Milano indica la strada giusta: si deve partire dalla segnalazione come evento scatenante, e spetta al datore provare che la condotta successiva è del tutto estranea a essa. Al contrario, la sentenza del 3 marzo 2025, pur riconoscendo l’illegittimità del licenziamento, sembra non collocarsi pienamente entro il nuovo paradigma probatorio. La sfida, dunque, è culturale e giurisprudenziale: abbandonare logiche residuali basate sulla prova diretta e abbracciare una visione realistica ed empatica del ruolo del whistleblower — non come un “denunciatore”, ma come un presidio di legalità. Solo così si potrà garantire ciò che la Direttiva europea auspica: una protezione effettiva, non solo sulla carta, ma nella pratica quotidiana dei luoghi di lavoro italiani.

