La Cassazione dice no: non basta l’urgenza a giustificare un licenziamento
In un Paese dove le emergenze ambientali — soprattutto quelle legate alla gestione dei rifiuti — si trasformano spesso in scuse per aggirare le tutele dei lavoratori, la Corte di Cassazione interviene con una sentenza chiara e netta: non è ammissibile usare lo stato di emergenza per legittimare provvedimenti disciplinari o organizzativi lesivi dei diritti fondamentali del dipendente. Il caso riguarda un lavoratore — dipendente di una società partecipata da un ente locale — oggetto di un trasferimento d’ufficio in una sede distante, a seguito del suo presunto rifiuto di svolgere mansioni legate alla gestione dell’emergenza rifiuti. Di fronte al mancato accoglimento dell’ordine di trasferimento, il datore di lavoro aveva proceduto al licenziamento per giustificato motivo oggettivo, sostenendo l’urgenza di far fronte all’emergenza ambientale.
L’art. 2103 del Codice Civile stabilisce che:
“Il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte, senza diminuzione della retribuzione. Il datore di lavoro può modificare le mansioni purché non ne derivi un pregiudizio alla professionalità del lavoratore né una diminuzione della retribuzione.”
Inoltre, l’art. 13 dello Statuto dei Lavoratori (Legge 300/1970) sancisce:
“È vietato adibire il lavoratore a mansioni inferiori a quelle per le quali è stato assunto, salvo i casi previsti dalla legge.”
E ancora più rilevante, l’art. 2110 c.c. — relativo al trasferimento del lavoratore da una unità produttiva all’altra — prevede che:
“Il trasferimento del prestatore di lavoro da una unità produttiva ad altra non può essere disposto se non per comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive.”
La posizione della Corte di Cassazione
Con la sentenza n. 18347 del 2023, la Corte di Cassazione ha respinto il ricorso del datore di lavoro e confermato la illegittimità del licenziamento, precisando che:
“Lo stato di emergenza, anche se formalmente dichiarato con provvedimento governativo ai sensi della legge n. 225 del 1992, non può di per sé giustificare un trasferimento unilaterale del lavoratore né autorizzare il datore a derogare unilateralmente agli obblighi contrattuali e legali, senza dimostrare concretamente l’esistenza di comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive, ai sensi dell’art. 2103 c.c.”
La Suprema Corte ha ribadito un principio fondamentale: l’emergenza non è un “jolly” per sospendere il diritto del lavoro. Anche in contesti di crisi, il datore di lavoro deve rispettare l’equilibrio tra esigenze aziendali e diritti del lavoratore. In particolare, il trasferimento deve essere:
- necessario (non alternativo ad altre soluzioni);
- proporzionato (non eccessivo rispetto all’obiettivo);
- non punitivo (non finalizzato a sanzionare il rifiuto di un’attività non prevista dal contratto).
Nel caso esaminato, la Corte ha ritenuto che non fosse stata fornita alcuna prova concreta del nesso tra l’emergenza rifiuti e la necessità specifica di trasferire proprio quel lavoratore, né del fatto che le nuove mansioni rientrassero nel suo profilo professionale.
Una lezione di diritto e di buon senso
Questa pronuncia è importante non solo per i suoi effetti giuridici, ma anche per il messaggio culturale che trasmette: in un’epoca in cui le emergenze — sanitarie, ambientali, sociali — si moltiplicano, non si può sacrificare la dignità del lavoro sull’altare della “necessità”. Il diritto del lavoro non è un optional da attivare o disattivare a seconda della convenienza. Per datori, manager e amministratori pubblici, la sentenza è un monito chiaro: le emergenze non esimono dal rispetto della legalità. Anzi, proprio nei momenti di crisi, la legalità deve essere il faro che guida le scelte organizzative.

