Immagina di essere un autista, un rappresentante di commercio o un tecnico che lavora sul campo. La tua auto è il tuo ufficio itinerante. Ora immagina che il tuo datore di lavoro, senza avvisarti, ti tenga d’occhio 24 ore su 24 tramite un dispositivo GPS installato sul veicolo. Non per controllare che tu consegni la merce in orario, ma per sapere se hai fatto una sosta al bar, se hai accompagnato tuo figlio a scuola o se hai deviato dal percorso “approvato”. Questo non è fantascienza: è una realtà che molte aziende considerano legittima, spesso a torto. Ma fino a dove può spingersi il controllo datoriale sui dipendenti? E quando il GPS smette di essere uno strumento di gestione e diventa una violazione dei diritti fondamentali del lavoratore?
La legge: un equilibrio delicato tra efficienza e rispetto della persona
L’art. 4 dello Statuto dei Lavoratori (Legge 300/1970) è chiaro:
“È vietata l’installazione di impianti audiovisivi o di altri strumenti di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori, senza l’accordo con le rappresentanze sindacali o, in mancanza, l’autorizzazione dell’Ispettorato territoriale del lavoro.”
Questa norma non è un semplice ostacolo burocratico. È il baluardo giuridico della dignità umana sul posto di lavoro. Il legislatore ha voluto impedire che il lavoratore diventasse un numero tracciabile, un oggetto da sorvegliare anziché una persona da rispettare. La legge prevede due eccezioni fondamentali che autorizzano l’uso di determinati strumenti sul luogo di lavoro. Gli strumenti impiegati a fini organizzativi o produttivi, come i sistemi di geolocalizzazione installati sui veicoli aziendali destinati a un utilizzo esclusivamente lavorativo, possono essere considerati legittimi, ma solo a condizione che il loro impiego sia strettamente connesso alla gestione dell’attività, come l’ottimizzazione dei percorsi, la sicurezza del carico o il rispetto degli orari di consegna. Inoltre, è indispensabile il consenso informato del lavoratore, il quale deve essere accompagnato da una chiara informativa che specifichi finalità, durata e modalità di utilizzo del dispositivo. Non è sufficiente firmare un semplice documento al momento dell’assunzione: il consenso del lavoratore deve essere specifico, libero e consapevole.
La Cassazione: il GPS non autorizza la sorveglianza occulta
La Corte di Cassazione è intervenuta più volte per tracciare un confine netto tra controllo lecito e sorveglianza abusiva. Nella sentenza n. 11659 del 2020, la Suprema Corte ha ribadito che l’utilizzo di un sistema GPS per finalità disciplinari, senza il previo accordo sindacale o l’autorizzazione dell’Ispettorato, configura una violazione dell’art. 4 dello Statuto dei Lavoratori. Di conseguenza, qualsiasi provvedimento disciplinare basato su tali dati è illegittimo e quindi annullabile.
Ancora più incisiva è la sentenza n. 26069 del 2018:
“Il rilievo costante e continuativo della posizione geografica del lavoratore, anche al di fuori dell’orario di lavoro o in assenza di una chiara delimitazione dell’uso lavorativo del mezzo, integra un controllo a distanza vietato dall’art. 4.”
In pratica: se l’auto può essere usata anche per fini personali (per esempio in smart working o in regime di fringe benefit), il GPS diventa uno strumento di controllo generalizzato e, dunque, illegittimo.
E l’UE? Il GDPR entra in campo
Non dimentichiamo che il tracciamento GPS comporta la raccolta di dati personali e, in alcuni casi, di dati sensibili, come quelli relativi agli spostamenti verso luoghi particolari quali cliniche o luoghi di culto. A tal proposito, il Regolamento Europeo sulla Protezione dei Dati (GDPR) stabilisce che tale trattamento debba essere sempre necessario e proporzionato, che i lavoratori siano informati in maniera chiara e trasparente, e che vengano adottate misure di sicurezza adeguate per proteggere questi dati. In diverse occasioni, l’Autorità Garante per la protezione dei dati personali ha già sanzionato aziende che non hanno rispettato tali principi nell’utilizzo di sistemi di geolocalizzazione.
Il vero controllo nasce dalla fiducia, non dal tracciamento
Il datore di lavoro ha sia il diritto che il dovere di controllare l’efficienza e la correttezza dell’attività lavorativa, ma tale controllo non può degenerare in una sorveglianza eccessiva capace di violare la sfera privata o di ledere la dignità della persona. L’utilizzo del GPS, per esempio, può rivelarsi un prezioso strumento nei contesti logistici complessi, ma il suo impiego deve rispettare tre principi fondamentali: essere finalizzato esclusivamente ad esigenze lavorative, garantire totale trasparenza verso i dipendenti e conformarsi alle normative previste, attraverso un accordo sindacale o una specifica autorizzazione amministrativa. Diversamente, uno strumento progettato per ottimizzare i percorsi rischia di tracciare un cammino diretto verso le aule di tribunale.
Se ti è piaciuto questo approfondimento, condividilo con chi crede che il lavoro debba essere gestito con intelligenza — e rispetto.

