(Tra lacune normative, deficit peritali e silenzi della giurisprudenza)
L’evoluzione della dottrina e della giurisprudenza in materia di conflitti sul luogo di lavoro ha progressivamente riconosciuto la complessità del disagio psicofisico del lavoratore. Se il mobbing ha a lungo monopolizzato l’attenzione mediatica, giuridica e peritale, oggi emerge con crescente rilevanza un fenomeno più subdolo, spesso trascurato o erroneamente ricondotto a schemi processuali inadeguati: lo straining. Definito dal dott. Harald Ege come «una situazione di stress forzato sul posto di lavoro, in cui la vittima subisce almeno un’azione ostile e stressante, con conseguenze negative costanti e permanenti», lo straining si distingue dal mobbing principalmente per l’assenza di sistematicità e frequenza delle azioni vessatorie. Pur non rispondendo ai criteri classici del mobbing (almeno alcune volte al mese, per un periodo non inferiore a 6 mesi), lo straining produce effetti devastanti sulla salute psichica, sulla professionalità e sulla qualità della vita del lavoratore — talvolta paragonabili, se non superiori, a quelli del mobbing stesso. Nonostante l’evoluzione giurisprudenziale, permangono lacune strutturali, operative e concettuali che compromettono il riconoscimento e la tutela effettiva delle vittime di straining. Di seguito si analizzano le problematiche mai affrontate in dottrina o giurisprudenza, proponendo soluzioni giuridiche e psicologiche innovative.
L’assenza di una tipizzazione legislativa dello straining: un vuoto colmato solo in via giurisprudenziale.
Nel nostro ordinamento non esiste una norma penale o civilistica che definisca lo straining come categoria autonoma. L’unica base giuridica per rivendicare il risarcimento è l’art. 2087 c.c., che impone al datore di lavoro di adottare «le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale del prestatore di lavoro». La Cassazione, con l’Ordinanza n. 31367/2025, ha affermato che: «La violazione dell’articolo 2087 del Codice civile tutela il lavoratore ‘comunque e in ogni caso’, a prescindere dalla concreta individuazione di una condotta di mobbing. Per configurare la responsabilità datoriale, […] è sufficiente dimostrare che i comportamenti pregiudizievoli, presi singolarmente o nel loro insieme, abbiano contribuito a creare un ambiente di lavoro stressogeno e che il datore di lavoro abbia tollerato, anche solo colposamente, il mantenersi di tale condizione nociva». La carenza di una tipizzazione normativa ostacola l’adozione uniforme di criteri diagnostici e peritali, limita l’accesso a strumenti di tutela preventiva, come la valutazione dei rischi psicosociali prevista dal D.Lgs. 81/2008, e rende complessa l’attribuzione di responsabilità oggettiva in ambito penale in presenza di condotte di straining accertate.
Soluzione proposta: inserire lo straining tra i rischi valutabili nel Documento di Valutazione dei Rischi (DVR), con obbligo per il datore di adottare misure preventive specifiche. Inoltre, si suggerisce di prevedere – in sede di riforma del codice penale o con legge speciale – una figura autonoma di reato o illecito amministrativo, con sanzioni pecuniarie e sospensione dell’attività in caso di gravi violazioni.
Il deficit metodologico delle CTU: tra soggettivismo e mancanza di standardizzazione
Le perizie tecniche (CTU) continuano a fondarsi prevalentemente sul Leymann Inventory of Psychological Terrorism (LIPT), strumento concepito per il mobbing, non per lo straining. Il LIPT Ege Professional, pur essendo una versione adattata, non è universalmente riconosciuto né codificato nei manuali forensi. Inoltre, la giurisprudenza richiede la prova oggettiva del danno esistenziale, definito dalla Cass. S.U. n. 6572/2006 come: «Ogni pregiudizio (di natura non meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente accertabile) provocato sul fare areddituale del soggetto, che alteri le sue abitudini e gli assetti relazionali propri, inducendolo a scelte di vita diverse quanto all’espressione e realizzazione della sua personalità nel mondo esterno». Attualmente non esiste un protocollo nazionale standardizzato volto a: valutare il nesso causale tra un singolo atto, quale ad esempio il demansionamento, e il conseguente danno esistenziale; misurare l’entità del danno in modo condiviso tra psicologi, medici legali e consulenti del lavoro; distinguere in maniera sistematica tra stress occupazionale ordinario e straining intenzionale. Per colmare tale lacuna, si propone l’istituzione di un Comitato Nazionale Interdisciplinare per la Valutazione del Danno Psicosociale. Questo organismo avrebbe il compito di elaborare un protocollo diagnostico-peritale unico specificamente applicabile ai casi di straining, di definire tabelle per la monetizzazione del danno aggiornate e adeguate oltre le attuali Tabelle Ege, nonché di promuovere la formazione dei consulenti tecnici d’ufficio mediante l’impiego di strumenti scientifici validati e riconosciuti, al fine di garantire un approccio uniforme e rigoroso nella valutazione e nel trattamento delle suddette fattispecie.
L’ambiguità del “carattere intenzionale”: quando è sufficiente la colpa?
La dottrina tradizionale richiede per lo straining un carattere intenzionale e discriminatorio. Tuttavia, l’Ordinanza n. 31367/2025 ha chiarito che basta la colpa (negligenza, imprudenza) del datore di lavoro per attivare la responsabilità ex art. 2087 c.c. Questa evoluzione crea una contraddizione concettuale: se lo straining è definito come intenzionale, ma il risarcimento scatta anche in assenza di dolo, allora il concetto stesso di “intenzionalità” va relativizzato.
Problema mai affrontato: come conciliare la definizione psicologica (che richiede intenzionalità) con la responsabilità civile colposa?
La soluzione giuridico-psicologica si articola nella distinzione tra straining doloso e straining colposo, concetti applicabili nel contesto delle relazioni lavorative e con rilevanza giuridica. Lo straining doloso si configura nei casi in cui sussista dolo specifico, ossia un’intenzione deliberata e consapevole di creare una situazione stressogena e persecutoria ai danni di un lavoratore, con possibile rilevanza anche in sede penale. Al contrario, lo straining colposo si manifesta quando il datore di lavoro, pur in assenza di un intento persecutorio, omette di vigilare adeguatamente sull’ambiente di lavoro, tollerando il permanere di un clima organizzativo stressante e disfunzionale, in violazione del dovere giuridico di tutela e vigilanza previsto dall’ordinamento.
In quest’ultimo caso, il danno esistenziale andrebbe comunque riconosciuto, purché oggettivato clinicamente.
Il silenzio sulla responsabilità dei colleghi e del mobbing orizzontale nello straining
La giurisprudenza riconosce il mobbing orizzontale (tra colleghi), ma nessuna sentenza ha mai analizzato se possa configurarsi uno straining orizzontale. È un fenomeno ricorrente che, all’interno di un gruppo di colleghi, si verificano condotte rilevanti ai fini giuridici, quali la sistematica emarginazione di un lavoratore, la divulgazione di informazioni false e fuorvianti, nonché l’ostacolo intenzionale all’accesso agli strumenti necessari per lo svolgimento delle mansioni lavorative. Tali condotte, se perpetrate da non superiori gerarchici, sfuggono alla responsabilità ex art. 2087 c.c., poiché il datore risponde solo se ha omesso di vigilare.
Problema inedito: se lo straining orizzontale non è prevenuto, il datore è responsabile per colpa grave; ma la vittima non può agire contro i colleghi (mancanza di norma specifica).
Soluzione: estendere l’applicazione dell’art. 2049 c.c. (responsabilità per fatto altrui) ai casi di straining collettivo, con obbligo per il datore di formare il personale sui rischi psicosociali e di istituire canali di segnalazione protetti.
La mancata integrazione tra sicurezza sul lavoro e salute mentale
Il D.L. n. 159/2025, successivamente convertito in legge, introduce un rafforzamento delle misure a tutela della salute nei luoghi di lavoro, ma omette un riferimento esplicito al fenomeno dello straining e ai rischi psicosociali connessi ad azioni isolate ma strutturate. Rimane pertanto irrisolto un problema significativo: nella valutazione del rischio da stress lavoro-correlato, così come disciplinata dall’Accordo Stato-Regioni del 2010, non viene considerata l’incidenza delle dinamiche discriminatorie e intenzionali proprie dello straining. L’analisi continua invece a focalizzarsi esclusivamente sui fattori organizzativi di carattere generale, come il carico di lavoro, la gestione dei turni e altri aspetti similari, senza affrontare adeguatamente il profilo degli effetti psicologici legati a condotte lesive intenzionali. Tale lacuna normativa pone la necessità di una revisione dell’approccio valutativo per garantire una tutela più completa ed effettiva dei lavoratori. Nel contesto della valutazione del rischio da stress lavoro-correlato, si propone di integrare specifici indicatori pertinenti allo straining, al fine di fornire un modello più completo ed efficace. Tra tali indicatori assumono particolare rilevanza: l’imposizione unilaterale di cambiamenti nelle mansioni attribuite al lavoratore; l’esclusione sistematica e ingiustificata dai flussi informativi necessari per lo svolgimento delle proprie attività; i trasferimenti a carattere punitivo, volti a mortificare la dignità professionale o personale del dipendente; nonché la privazione di strumenti essenziali all’espletamento delle funzioni lavorative. Tali elementi costituiscono fattori cruciali per una corretta individuazione e prevenzione delle situazioni di rischio psicosociale, potenzialmente lesive della salute e del benessere dei lavoratori, e dunque devono essere inclusi come parametri valutativi nel modello di riferimento.
Lo straining rappresenta oggi la frontiera invisibile del disagio lavorativo: riconosciuto dalla giurisprudenza (Cass. 31367/2025; Cass. n. 19196/2024), ma non ancora codificato, standardizzato o prevenuto. La sua natura ibrida — tra mobbing, stress e illecito civile — lo rende un “mostro giuridico” sfuggente, ma non per questo irrilevante. Per garantire una tutela effettiva, si rende necessaria un’azione normativa chiara e precisa che disciplini gli ambiti della responsabilità, della prevenzione e delle sanzioni, accompagnata dall’istituzionalizzazione di protocolli peritali di carattere interdisciplinare. Parallelamente, appare indispensabile ampliare l’ambito della vigilanza datoriale, includendo il monitoraggio del clima relazionale quotidiano all’interno dei contesti lavorativi. Inoltre, è fondamentale riconoscere il danno esistenziale come una categoria autonoma, quantificabile e suscettibile di risarcimento, anche in assenza di una patologia clinicamente accertata, al fine di garantire un’adeguata tutela ai soggetti lesi.Come affermato dalla Corte di Cassazione, Sez. Lavoro, Ord. 27 giugno 2024, n. 19196:«Il giudice del merito, pur se non accerti l’insussistenza di un intento persecutorio idoneo ad unificare gli episodi in modo da potersi configurare una condotta di mobbing, è tenuto a valutare se, dagli elementi dedotti – per caratteristiche, gravità, frustrazione personale o professionale, altre circostanze del caso concreto – possa presuntivamente risalirsi al fatto ignoto dell’esistenza di questo più tenue danno».
È tempo che il “tenue danno” non sia più considerato secondario, ma centrale nella tutela della persona umana nel lavoro.

