Il tema del controllo datoriale mediante impianti di videosorveglianza ha assunto crescente rilevanza nel contesto del rapporto di lavoro, soprattutto quando tale controllo viene utilizzato per giustificare provvedimenti disciplinari gravi, quali il licenziamento per giusta causa. La Corte di Cassazione, con sentenza n. 19665 del 24 novembre 2025, ha fornito un’importante chiarificazione in merito al conflitto tra potere di controllo del datore e diritto alla privacy del lavoratore, ribadendo che la disciplina collettiva può legittimamente limitare l’utilizzabilità delle riprese a fini disciplinari, anche alla luce della recente riforma dell’art. 4 dello Statuto dei Lavoratori.
Il fatto: un licenziamento fondato su immagini non utilizzabili
Il caso in esame riguardava un dipendente croupier licenziato per essersi appropriato, durante lo svolgimento delle proprie mansioni, di due banconote da 100 euro. Il datore di lavoro aveva fondato il recesso sulla base di immagini registrate da telecamere installate sui tavoli da gioco. Tuttavia, tali telecamere erano state installate ai sensi dell’art. 4 della legge n. 300/1970 nel testo anteriore alle modifiche del d.lgs. n. 151/2015, e l’autorizzazione dell’Ispettorato del Lavoro, richiamata espressamente nel contratto collettivo nazionale (art. 35), prevedeva che “i fatti ripresi con le telecamere non potevano in nessun caso costituire oggetto di contestazione disciplinare o motivo di addebito, potendo essere utilizzate esclusivamente a discolpa del lavoratore”. La Corte d’Appello di Genova, in riforma della sentenza di primo grado, aveva dichiarato illegittimo il licenziamento, ritenendo che la combinazione tra autorizzazione amministrativa e disciplina collettiva escludesse l’utilizzabilità delle immagini a fini disciplinari. Di conseguenza, veniva a mancare la prova del fatto illecito, con la conseguente nullità del recesso.
La posizione del datore di lavoro: la riforma del 2021 avrebbe superato ogni limite
Il datore di lavoro, nel presentare ricorso per cassazione, ha sostenuto che la modifica introdotta dall’art. 23, comma 1, del decreto legislativo n. 151/2021, la quale ha integralmente sostituito l’articolo 4 dello Statuto dei Lavoratori, consentirebbe l’utilizzo delle informazioni raccolte tramite impianti di controllo “a tutti i fini connessi al rapporto di lavoro”, purché il lavoratore sia adeguatamente informato e venga rispettato il Codice della Privacy (decreto legislativo n. 196/2003). In particolare, il comma 3 del nuovo art. 4 specifica che tali informazioni sono utilizzabili solo a condizione che al lavoratore venga fornita un’adeguata informazione sulle modalità d’uso degli strumenti e sull’effettuazione dei controlli, oltre al rispetto delle disposizioni previste dalla normativa sulla privacy. Sulla base di questa disposizione normativa, la società ricorrente sosteneva che le limitazioni derivanti dall’autorizzazione amministrativa e dal contratto collettivo fossero automaticamente superate dalla riforma. La Corte di Cassazione, pur riconoscendo il carattere innovativo della riforma del 2021, ha stabilito che questa non può automaticamente annullare le clausole collettive più favorevoli per il lavoratore. È stato chiarito che l’inutilizzabilità delle informazioni non derivava semplicemente dall’autorizzazione amministrativa, ma dal loro esplicito recepimento all’interno del contratto collettivo. Questo è stato interpretato come un’espressione legittima e tutelata dell’autonomia privata delle parti collettive, configurandosi, nello specifico, come una clausola di maggior favore per il lavoratore. Tale principio si inserisce in una consolidata linea giurisprudenziale che impedisce al datore di lavoro di disapplicare unilateralmente norme collettive, anche in presenza di una nuova legge, salvo che non vi sia un chiaro conflitto normativo diretto, una condizione che, in questo caso, non era presente. Inoltre, la Corte ha chiarito che le telecamere installate sui tavoli da gioco non costituiscono “strumenti utilizzati dal lavoratore per rendere la prestazione lavorativa”, ai sensi del comma 2 del novellato art. 4, poiché l’uso degli impianti era di esclusiva competenza della sala regia, non rientrando nella sfera di competenza dei croupier. Di conseguenza, non era applicabile la deroga al regime autorizzativo, e restava operante il regime del comma 1.
Il controllo “difensivo” e la proporzionalità
Il datore di lavoro aveva sostenuto la legittimità del cosiddetto controllo difensivo, ritenendo che la tutela del patrimonio aziendale potesse giustificare l’uso delle riprese anche in assenza di sospetti preesistenti. Tuttavia, la Corte ha evidenziato che tale controllo non riguardava dati acquisiti a seguito del sorgere di un sospetto, bensì informazioni raccolte in precedenza e solo successivamente analizzate. Inoltre, ha sottolineato che il datore di lavoro avrebbe potuto adottare misure e metodi meno invasivi rispetto all’obiettivo di tutela perseguito. Questo approccio è in linea con la giurisprudenza della Corte EDU, che, attraverso sentenze come Barbulescu c. Romania (Grande Camera, 2017) e López Ribalda c. Spagna (2018), ha stabilito che qualsiasi forma di controllo deve essere proporzionata, circoscritta nel tempo e nello spazio, e garantire adeguate tutele a favore del lavoratore.
Conferma del principio di proporzionalità anche per i fatti gravi
L’ordinanza n. 27353/2023 della Cassazione si è pronunciata sull’illegittimità del licenziamento per sottrazione di beni di modesto valore, come uova e formaggio, sottolineando che la tenuità del danno, insieme all’anzianità di servizio e all’assenza di precedenti disciplinari, può rendere sproporzionata una sanzione, anche in presenza di un fatto tecnicamente penalmente rilevante. L’importanza di questa decisione risiede nel bilanciamento tra il potere datoriale e le tutele fondamentali per il lavoratore, un tema che si collega a orientamenti della Corte Edu e ai principi del GDPR, regolamento UE 2016/679. La sentenza insiste su alcuni aspetti cruciali, affermando che la disciplina collettiva prevale sulle interpretazioni unilaterali del datore di lavoro e che l’autorizzazione amministrativa, qualora integrata nel contratto collettivo, resta vincolante anche quando sopravvengono riforme legislative. Inoltre, evidenzia che l’utilizzo di riprese a fini disciplinari è legittimo solo se supportato da un’informativa adeguata, una reale base giuridica e dalla proporzionalità del mezzo impiegato. Infine, si conferma il principio secondo cui nessuna tecnologia di controllo può giustificare un licenziamento se viola i limiti imposti dall’autonomia collettiva e dal diritto alla privacy, un diritto fondamentale sancito tanto dall’art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo quanto dall’art. 16 del GDPR.

