L’avanzata dell’intelligenza artificiale (IA) nei luoghi di lavoro non è più fantascienza: è realtà giuridica. Una recente sentenza del Tribunale di Roma (n. 9135 del 19 novembre 2025) ha aperto un nuovo capitolo nel diritto del lavoro italiano, stabilendo con chiarezza quando un datore di lavoro può legittimamente licenziare un dipendente le cui mansioni sono state assorbite da strumenti basati sull’IA. La decisione non solo interpreta la normativa vigente, ma fissa anche un preciso perimetro di legittimità per i licenziamenti legati alla digitalizzazione e all’automazione aziendale.
La cornice normativa: L. 604/1966 e il “giustificato motivo oggettivo”
Il fondamento normativo del caso risiede nell’art. 3 della Legge 15 luglio 1966, n. 604, che disciplina il licenziamento per giustificato motivo oggettivo. Secondo tale disposizione, il datore di lavoro può recedere dal rapporto di lavoro qualora sussistano “esigenze tecnico-produttive, organizzative o relative al regolare funzionamento dell’azienda” che rendano superflua la posizione del lavoratore. L’art. 5 della medesima legge stabilisce un rigido onere di prova a carico del datore di lavoro, il quale non può limitarsi a invocare genericamente un’innovazione tecnologica, ma è tenuto a dimostrare con precisione ed esaustività tre elementi fondamentali. In primo luogo, deve provare l’esistenza di una crisi aziendale concreta e documentata. Inoltre, è necessario dimostrare un nesso causale diretto tra la riorganizzazione aziendale, che può includere processi di digitalizzazione, e la conseguente soppressione della mansione. Infine, il datore deve dimostrare l’impossibilità oggettiva di ricollocare il lavoratore in altra posizione compatibile, in conformità al principio del repêchage.
Il caso concreto: una graphic designer licenziata per far posto all’IA
Il Tribunale di Roma ha esaminato il ricorso di una graphic designer, inquadrata al IV livello del CCNL Commercio e Terziario, il cui licenziamento era stato impugnato perché le sue funzioni erano state in parte assorbite da strumenti di intelligenza artificiale, in parte redistribuite al team leader e al marketing manager. L’azienda, nel frattempo, aveva subito un drastico ridimensionamento: trasformata da S.p.A. a S.r.l., aveva dimezzato l’organico (da 20 a 10 dipendenti), era stata sfrattata per morosità e aveva avviato una procedura negoziata per crisi d’impresa. Il core business era stato riallineato esclusivamente su cybersecurity e sviluppo software, sacrificando funzioni ritenute “non strategiche”, come il design grafico. Il giudice ha confermato la legittimità del licenziamento, riconoscendo che la crisi aziendale era comprovata attraverso documentazione contabile e organizzativa. Inoltre, ha rilevato che la soppressione della mansione derivava da una reale riorganizzazione interna e non da un semplice intento di riduzione dei costi. Infine, ha constatato che il repêchage era oggettivamente impraticabile, poiché non vi erano ruoli vacanti disponibili, non erano previste nuove assunzioni e le competenze della lavoratrice risultavano incompatibili con il nuovo indirizzo strategico dell’azienda. Inoltre, l’azienda non aveva assunto nuovo personale dopo il licenziamento, confermando l’assenza di intento elusivo o discriminatorio.
L’IA come strumento legittimo di riorganizzazione, non come scusa
La sentenza ribadisce un principio fondamentale: l’intelligenza artificiale può legittimamente sostituire funzioni umane, ma solo se integrata in un processo di riorganizzazione reale, motivato da esigenze economiche e non da mera volontà di ridurre il costo del lavoro. L’utilizzo dell’intelligenza artificiale deve essere attentamente pianificato e regolato, tenendo conto di tre aspetti fondamentali. In primo luogo, è necessario documentarlo adeguatamente attraverso analisi che ne valutino l’efficienza, i risparmi ottenuti e l’impatto operativo. Inoltre, deve essere proporzionato, evitando approcci arbitrari o discriminatori. Infine, il ricorso all’IA dovrebbe inserirsi in un contesto di crisi reale e oggettiva, piuttosto che in situazioni transitorie o basate su necessità immaginarie.
E la Cassazione cosa dice?
Sebbene la Corte di Cassazione non si sia ancora espressa in modo specifico sui licenziamenti determinati dalla sostituzione con l’intelligenza artificiale, ha tuttavia chiarito in diverse occasioni i principi cardine del licenziamento per giustificato motivo oggettivo. Questi principi includono l’onere probatorio a carico del datore di lavoro, come stabilito dalla sentenza n. 11768/2023, la necessità di dimostrare un nesso causale diretto tra la crisi aziendale e la soppressione della mansione, definita con la sentenza n. 22891/2022, e l’obbligo per il datore di adempiere concretamente al cosiddetto “repêchage”, ossia il tentativo effettivo e non meramente formale di ricollocare il lavoratore all’interno dell’organizzazione, ribadito nella sentenza n. 10264/2024. In tale contesto, la recente sentenza del Tribunale di Roma si allinea pienamente a questa impostazione, prefigurando un’evoluzione giurisprudenziale destinata a consolidarsi ulteriormente con l’integrazione sempre più strutturale dell’intelligenza artificiale nelle dinamiche aziendali
Tra innovazione e diritti, serve equilibrio
Questa pronuncia rappresenta un segnale d’allarme per i lavoratori e una guida per le imprese, tracciando un delicato equilibrio tra innovazione tecnologica e tutela dei diritti. Da una parte, si riconosce la legittimità delle scelte tecnologiche in situazioni di crisi; dall’altra, si richiede rigore probatorio e trasparenza per evitare che l’intelligenza artificiale diventi uno strumento per agevolare licenziamenti indiscriminati. Per i professionisti del diritto del lavoro, il messaggio è inequivocabile: la digitalizzazione non annulla i diritti, ma ne ridefinisce i confini. In questo contesto, il ruolo del giudice diventa ancor più cruciale, chiamato a trovare un equilibrio tra il progresso tecnologico e la protezione della dignità e dei diritti delle persone.

