Nel panorama del diritto del lavoro italiano, pochi temi suscitano maggiore delicatezza – e complessità giuridica – del licenziamento di un lavoratore con disabilità. L’azienda, come noto, ha il diritto di riorganizzare la propria struttura in base a esigenze economiche, produttive o organizzative. Tuttavia, tale facoltà non è illimitata: quando coinvolge un lavoratore disabile, entra in gioco un sistema di tutele rafforzate, previste sia dall’ordinamento nazionale che da principi consolidati del diritto europeo. La domanda cruciale, dunque, è: può un’azienda licenziare un lavoratore disabile per motivi di riorganizzazione? La risposta non è scontata, e richiede un’analisi puntuale della giurisprudenza più recente – in particolare, della Corte di Cassazione – e del quadro normativo applicabile.
1. Il licenziamento per “motivi oggettivi” non è automaticamente legittimo
Il punto di partenza è che la soppressione di un posto di lavoro per ragioni economiche – ad esempio, calo del fatturato, ristrutturazione, fusione o riduzione dei costi – rientra tra i cosiddetti “licenziamenti per giustificato motivo oggettivo” (art. 3, legge n. 604/1966). In linea di principio, questa tipologia di recesso è consentita, a patto che sia effettivamente giustificata da concrete esigenze aziendali.
Tuttavia, la presenza di una valida ragione economica non rende automaticamente legittimo il licenziamento se il destinatario è un lavoratore con disabilità. Anzi, la giurisprudenza ha più volte chiarito che il licenziamento può essere discriminatorio anche se coesiste un motivo economico legittimo.
La Corte di Cassazione, con l’Ordinanza n. 460/2025, ha ribadito un principio fondamentale:
“Il licenziamento è nullo qualora la disabilità del lavoratore abbia avuto un ruolo, anche concorrente, nella decisione datoriale, indipendentemente dalla sussistenza di un giustificato motivo oggettivo.”
Ciò significa che non serve provare che la disabilità sia stata l’unico motivo del licenziamento: è sufficiente che essa abbia influenzato, anche solo parzialmente, la scelta del datore di lavoro.
2. L’onere della prova: un meccanismo a tutela del lavoratore
Dimostrare una discriminazione diretta è spesso difficile. Il lavoratore, infatti, non può accedere alle deliberazioni interne dell’azienda né leggere le intenzioni del datore di lavoro. Per questo, il sistema giuridico prevede un alleggerimento dell’onere probatorio, conformemente al principio di tutela dei soggetti più vulnerabili (art. 2, comma 2, d.lgs. n. 216/2003, che attua la direttiva 2000/78/CE). Secondo la Cassazione, il lavoratore deve portare in giudizio “indizi gravi, precisi e concordanti” che facciano ragionevolmente presumere una discriminazione basata sulla disabilità. Tali indizi possono includere:
- l’esistenza di una condizione di disabilità riconosciuta (es. art. 3, legge n. 104/1992);
- l’atto pregiudizievole, ossia il licenziamento stesso;
- comportamenti discriminatori precedenti (es. demansionamento, isolamento, mobbing, riduzione di responsabilità);
- elementi statistici o comparativi: ad esempio, il fatto che il lavoratore disabile fosse l’unico a ricoprire una certa posizione e l’unico a essere licenziato in una riorganizzazione che coinvolgeva più figure equivalenti.
Un esempio concreto:
Una dirigente con disabilità grave viene licenziata per “soppressione della posizione”, mentre nessun altro dirigente – pur appartenente alla stessa area – è stato coinvolto nella riorganizzazione. Se dimostra di aver subìto, nei mesi precedenti, una progressiva riduzione di incarichi e un isolamento funzionale, il giudice potrà ritenere sussistente un trattamento discriminatorio.
3. L’inversione dell’onere della prova: spetta all’azienda giustificare la scelta
Una volta che il lavoratore ha fornito indizi sufficienti a far sorgere il fumus discriminationis, l’onere della prova si inverte. È l’azienda, a quel punto, a dover dimostrare che il licenziamento non ha alcun nesso con la disabilità del lavoratore. La Cassazione esige che tale prova sia composta da “circostanze inequivoche, precise e concordanti”, tali da escludere qualsiasi forma di discriminazione. L’azienda, dunque, non può limitarsi a ripetere genericamente di aver agito per motivi economici: deve motivare in modo oggettivo e trasparente perché, tra tutti i dipendenti in posizioni analoghe, abbia scelto proprio il lavoratore disabile. La giurisprudenza richiede che la scelta sia stata effettuata sulla base di criteri oggettivi, predeterminati e applicati in modo uniforme, come:
- l’anzianità di servizio;
- il livello di competenze tecniche;
- la rilevanza delle mansioni per il nuovo assetto produttivo.
Se l’azienda non riesce a fornire questa prova rigorosa, il licenziamento sarà dichiarato nullo.
4. Conseguenze del licenziamento discriminatorio: nullità e reintegra
Il licenziamento discriminatorio non è semplicemente “illegittimo” – è nullo, ai sensi dell’art. 1345 c.c. e delle norme di diritto antidiscriminatorio. Questa qualificazione comporta conseguenze ben precise:
- Reintegrazione immediata: il lavoratore ha diritto a tornare in servizio nella stessa posizione occupata prima del licenziamento (o, se soppressa, in una posizione equivalente);
- Risarcimento integrale: il datore di lavoro deve corrispondere al lavoratore tutte le retribuzioni maturate dal giorno del licenziamento fino al giorno effettivo della reintegra, oltre al rimborso dei contributi previdenziali non versati.
Questa tutela è la più forte prevista dall’ordinamento: riflette il principio che nessuna ragione economica, per quanto valida, può giustificare una violazione dei diritti fondamentali della persona, tra cui il diritto al lavoro e alla non discriminazione.
5. Tra esigenze datoriali e diritti inviolabili
La disciplina del licenziamento del lavoratore disabile incarna un equilibrio delicato tra libertà d’impresa e tutela dei diritti umani. Il datore di lavoro non è tenuto a mantenere in vita posti di lavoro non più necessari – ma non può neppure sfruttare una riorganizzazione come pretesto per liberarsi di un dipendente scomodo a causa della sua condizione di salute. In questo contesto, la giurisprudenza – in particolare la Cassazione – svolge un ruolo di garante: impone trasparenza, oggettività e rispetto del principio di uguaglianza sostanziale. E ricorda, con forza, che non esiste alcuna “giusta causa” per la discriminazione.

