Con ordinanza n. 26514 dell’11 ottobre 2024, la sezione lavoro della Corte di Cassazione ha esaminato le modalità di fruizione dei permessi di cui all’art. 33, comma 3, L. n. 104/1992.
Tale disposizione stabilisce (nel testo vigente, come da ultimo sostituito dall’art. 3, comma 1, lett. b), n. 1, D.L.vo n. 105/2022) che: “Il lavoratore dipendente, pubblico o privato, ha diritto a fruire di tre giorni di permesso mensile retribuito coperto da contribuzione figurativa, anche in maniera continuativa, per assistere una persona con disabilità in situazione di gravità, che non sia ricoverata a tempo pieno, rispetto alla quale il lavoratore sia coniuge, parte di un’unione civile ai sensi dell’articolo 1, comma 20, della legge 20 maggio 2016, n. 76, convivente di fatto ai sensi dell’articolo 1, comma 36, della medesima legge, parente o affine entro il secondo grado.
In caso di mancanza o decesso dei genitori o del coniuge o della parte di un’unione civile o del convivente di fatto, ovvero qualora gli stessi siano affetti da patologie invalidanti o abbiano compiuto i sessantacinque anni di età, il diritto è riconosciuto a parenti o affini entro il terzo grado della persona con disabilità in situazione di gravità.
Fermo restando il limite complessivo di tre giorni, per l’assistenza allo stesso individuo con disabilità in situazione di gravità, il diritto può essere riconosciuto, su richiesta, a più soggetti tra quelli sopra elencati, che possono fruirne in via alternativa tra loro. Il lavoratore ha diritto di prestare assistenza nei confronti di più persone con disabilità in situazione di gravità, a condizione che si tratti del coniuge o della parte di un’unione civile di cui all’articolo 1, comma 20, della legge 20 maggio 2016, n. 76, o del convivente di fatto ai sensi dell’articolo 1, comma 36, della medesima legge o di un parente o affine entro il primo grado o entro il secondo grado qualora i genitori o il coniuge della persona con disabilità in situazione di gravità abbiano compiuto i 65 anni di età oppure siano anch’essi affetti da patologie invalidanti o siano deceduti o mancanti”.
Come osservato dalla dottrina, alla precisione della norma nell’individuare le situazioni assistenziali sul piano soggettivo non corrisponde alcuna esplicitazione normativa dei contenuti dell’assistenza che possa o debba essere riservata alla persona con disabilità da parte del lavoratore che eserciti il diritto; la giurisprudenza di legittimità si è orientata ad affermare che elemento essenziale della fattispecie di cui all’art. 33, comma 3, L. n. 104/1992 è l’esistenza di un diretto nesso causale tra la fruizione del permesso e l’assistenza alla persona disabile, precisando che tale nesso causale va inteso non in senso così rigido da imporre al lavoratore il sacrificio, in correlazione col permesso, delle proprie esigenze personali o familiari in senso lato, ma piuttosto quale chiara ed inequivoca funzionalizzazione del tempo liberato dall’obbligo della prestazione di lavoro alla preminente soddisfazione dei bisogni della persona disabile, senza automatismi o rigide misurazioni dei segmenti temporali dedicati all’assistenza in relazione all’orario di lavoro
È stato quindi chiarito che il comportamento del prestatore di lavoro subordinato che, in relazione al permesso ex art. 33. L. 5 febbraio 1992, n. 104, si avvalga dello stesso non per l’assistenza al familiare, bensì per attendere ad altra attività, integra l’ipotesi di abuso del diritto, giacché tale condotta si palesa, nei confronti del datore di lavoro, come lesiva della buona fede, privandolo ingiustamente della prestazione lavorativa in violazione dell’affidamento riposto nel dipendente, ed integra, nei confronti dell’ente di previdenza erogatore del trattamento economico, un’indebita percezione dell’indennità e uno sviamento dell’intervento assistenziale (Cass. civ. n. 4984/2014); ciò anche per il disvalore sociale connesso a tali condotte abusive, stante che i permessi sono retribuiti in via anticipata dal datore di lavoro, il quale poi viene sollevato dall’ente previdenziale del relativo onere anche ai fini contributivi, comunque con necessità di diversa organizzazione del lavoro in azienda e di sostituzioni (Cass. civ. n. 8784/2015);
Il permesso ex art. 33 della legge n. 104/1992 riconosciuto al lavoratore in ragione dell’assistenza al disabile, rispetto alla quale l’assenza dal lavoro deve porsi in relazione causale diretta , non può essere utilizzato in funzione meramente compensativa delle energie impiegate dal dipendente per la detta assistenza.
Ne consegue che il comportamento del dipendente che si avvalga di tale beneficio per attendere ad esigenze diverse integra l’abuso del diritto e viola i principi di correttezza e buona fede, sia nei confronti del datore di lavoro che dell’Ente assicurativo, con rilevanza anche ai fini disciplinari (Cass. civ. n. 17968/2016).
Entro tale perimetro funzionale, è stato peraltro precisato che l’assistenza non può essere intesa riduttivamente come mera assistenza personale al soggetto disabile presso la sua abitazione, ma deve necessariamente comprendere lo svolgimento di tutte le attività che il soggetto non sia in condizioni di compiere autonomamente; l’abuso quindi va a configurarsi solo quando il lavoratore utilizzi i permessi per fini diversi dall’assistenza, da intendere in senso ampio, in favore del familiare (Cass. civ. n. 26514/2024 25290/2022, n. 1394/2020, n. 21529/2019, n. 30676/2018, n. Data pubblicazione 11/10/2024 23891/2018, n. 29062/2017, n. 17968/2016, n. 9217/2016, n. 8784/2015), atteso che l’interesse primario cui è preposta la legge n. 104/1992 è quello di assicurare in via prioritaria la continuità nelle cure e nell’assistenza al disabile che si realizzano in ambito familiare, attraverso una serie di benefici a favore delle persone che se ne prendono cura, pur dovendosi scongiurare utilizzi fraudolenti della normativa (così Cass. civ. n. 20243/2020).