Ha fatto molto discutere l’ordinanza n. 10065/2024, con cui la Corte di Cassazione, sezione lavoro, ha dato rilievo, ai fini dell’articolo 411, c.p.c., al luogo fisico della sede sindacale, in quanto solo quest’ultimo, e non anche la sede aziendale, sarebbe “protetto”, consentendo la libera esplicazione della genuina volontà del lavoratore.
La ratio dell’articolo 2113, cod. civ.
Strettamente connesso ai principi di inderogabilità in peius della legge da parte del contratto individuale di lavoro e di inderogabilità in peius del contratto collettivo da parte del contratto individuale di lavoro, è il regime contemplato dall’articolo 2113, cod. civ., di invalidità delle rinunce e transazioni stipulate al di fuori delle sedi protette.
Un meccanismo, quello previsto dalla norma codicistica richiamata, con il quale l’ordinamento si è preoccupato di conciliare i presidi di tutela affidati alla normativa inderogabile con il mantenimento, in favore del lavoratore, di spazi di autonomia negoziale al fine di consentirgli, nell’ambito di un accordo (transazione) o di un atto unilaterale di tipo dismissivo (rinuncia), la possibilità di disporre di un diritto già entrato a far parte del proprio patrimonio, essendo invece nulle le rinunce e le transazioni su diritti futuri[1].
Il sistema delineato dall’articolo 2113, cod. civ., trova applicazione a tutte le rinunce e a tutte le transazioni inerenti a rapporti che ricadono nell’articolo 409, c.p.c. (dunque, non soltanto ai rapporti del prestatore di lavoro subordinato, ma anche del lavoratore parasubordinato, dell’agente persona fisica, del lavoratore dell’impresa familiare, ai sensi dell’articolo 230-bis, cod. civ., del lavoratore etero-organizzato di cui all’articolo 2, D.Lgs. 81/2015), che riguardino, però, diritti la cui fonte sia una norma inderogabile o di legge o della contrattazione collettiva, con esclusione dei diritti nascenti dalla contrattazione individuale.
A fronte di una rinuncia o transazione a diritti così individuati, l’ordinamento prevede, come già anticipato, un particolare regime di invalidità, che si traduce nell’annullabilità dell’atto dispositivo, posto che la mancata impugnazione di esso entro il termine di decadenza di 6 mesi dalla cessazione del rapporto (se la rinuncia o la transazione sono state effettuate nel corso di esso) o dalla data della rinuncia o della transazione (se la rinuncia o la transazione siano successive alla cessazione del rapporto) ne determina la piena validità.
L’invalidità dei commi 1-3 dell’articolo 2113, cod. civ., non opera laddove le rinunce e le transazioni avvengano nelle sedi protette, ossia quella sindacale, quella amministrativa davanti alla Commissione di conciliazione costituita presso l’ITL competente per territorio, quella giudiziale, quella davanti a una Commissione di certificazione ai sensi dell’articolo 82, D.Lgs. 276/2003, infine, a seguito della riforma operata con il D.Lgs. 149/2022, attuativo della legge delega 206/2021, anche quella della negoziazione assistita tra avvocati
A norma dell’articolo 2, comma 2, lettera b), D.L. 132/2014, in precedenza, la materia del lavoro era esclusa dalla negoziazione assistita. L’articolo 9, D.Lgs. 149/2022, ha inserito, all’interno del D.L. 132/2014, l’articolo 2-ter, che consente di ricorrere alla negoziazione assistita con riferimento ai rapporti dell’articolo 409, c.p.c., senza che ciò costituisca condizione di procedibilità della domanda giudiziale. L’accordo raggiunto dev’essere trasmesso a cura di una delle parti, entro 10 giorni, a uno degli organismi di cui all’articolo 76, D.Lgs. 276/2003, e ad esso si applica il regime dell’articolo 2113, comma 4, cod. civ., con equiparazione dell’intervento degli avvocati a quello degli altri soggetti, garanti della libertà del consenso del lavoratore, già previsti dalla citata norma codicistica.
La stipulazione della transazione o l’effettuazione della rinuncia in sede protetta non attribuiscono all’atto una sorta di crisma di legittimità, di validità ed efficacia sotto ogni possibile profilo, semplicemente operando quella sede come “garanzia” della genuina manifestazione di volontà del lavoratore, sì da sottrarre l’atto dispositivo al regime di impugnazione dell’articolo 2113, cod. civ..
Esistono, però, ragioni di invalidità diverse, che rendono impugnabile l’atto dispositivo anche ove stipulato in sede protetta, a iniziare dalle ordinarie azioni di nullità e/o di annullamento in base alla disciplina comune dei contratti per incapacità naturale, ai sensi dell’articolo 1425, comma 2, e dell’articolo 428, cod. civ., o legale, ex articolo 1425, comma 1, cod. civ., per un vizio della volontà (errore, violenza e dolo ai sensi dell’articolo 1427, cod. civ.), con esclusione dell’errore di diritto relativo alle questioni oggetto di transazione, ex articolo 1969, cod. civ.; di nullità del negozio, ai sensi ai sensi degli articoli 1418 ss., cod. civ..
L’ordinanza in commento, tuttavia, impone di confrontarsi con una diversa domanda: è possibile travolgere una transazione stipulata in “sede protetta” contestando proprio quanto avvenuto in quella sede o la legittimità di quella sede?
L’effettività dell’assistenza
Per rispondere alla domanda, occorre richiamare la giurisprudenza che ha fatto leva sul concetto di effettività della sede protetta, che, nel caso di conciliazione sindacale, si è tradotta nell’effettività dell’assistenza prestata dal rappresentante sindacale.
Si è affermato, infatti, che il carattere della definitività della conciliazione sussiste solo qualora abbia partecipato attivamente alla conciliazione e sottoscritto la transazione il sindacalista appartenente all’organizzazione sindacale alla quale risulti iscritto o abbia conferito mandato il lavoratore.
Il sindacalista che presta assistenza dev’essere, in sostanza, un rappresentante “di fiducia” del lavoratore e non un “qualsiasi” sindacalista disposto a sottoscrivere l’accordo.
Secondo la giurisprudenza della Corte di Cassazione, le rinunce e le transazioni aventi a oggetto diritti del prestatore di lavoro derivanti da disposizioni inderogabili della legge o di contratti collettivi stipulate in sede sindacale non sono valide e sono impugnabili, a norma dell’articolo 2113, commi 2 e 3, cod. civ., nel caso in cui non risulti che l’assistenza del lavoratore a opera di un rappresentante sindacale sia stata effettiva, consentendogli di individuare esattamente il diritto al quale rinuncia e a fronte di quale vantaggio[2], con una valutazione che deve investire le concrete modalità di espletamento della conciliazione, al fine di verificare se sia stata correttamente attuata quella funzione di supporto che la legge assegna al sindacato nella fattispecie conciliativa[3].
In tale contesto, la giurisprudenza più recente non aveva attribuito alla sede sindacale una nozione di necessaria fisicità, stabilendo che la sottoscrizione dell’accordo presso la sede di un sindacato, in conformità alle previsioni dell’articolo 412-ter, c.p.c., e del contratto collettivo applicabile, non costituisse un requisito formale, ma funzionale, in quanto volto ad assicurare che la volontà del lavoratore sia espressa in modo genuino e non coartato, conseguendone che la stipulazione della transazione in una sede diversa non produce alcun effetto invalidante sulla transazione se il datore di lavoro prova che il dipendente ha avuto, grazie all’effettiva assistenza sindacale, piena consapevolezza delle dichiarazioni negoziali sottoscritte (Cassazione n. 1975/2024).
Ha, dunque, stupito l’ordinanza n. 10065/2024, di poco successiva all’ordinanza n. 1975/2024 citata, con cui la Corte di Cassazione ha fornito una lettura anche topografica della sede sindacale, intendendola proprio in un’accezione fisica e affermando che la conciliazione in sede sindacale, ai sensi dell’articolo 411, comma 3, c.p.c., non può essere validamente conclusa presso la sede aziendale, non potendo quest’ultima essere annoverata tra le sedi protette, giacché mancherebbe il carattere di neutralità indispensabile a garantire, unitamente all’assistenza prestata dal rappresentante sindacale, la libera determinazione della volontà del lavoratore.
L’ordinanza n. 10065/2024 e la particolarità del fatto
Esaminando l’ordinanza, la prima cosa che colpisce è il dato fattuale del tutto particolare. Nel caso concreto, nella transazione stipulata in sede aziendale, sia pure con l’assistenza del sindacalista, l’accordo era stato subordinato a una sorta di ratifica successiva, da effettuarsi ai sensi degli articoli 410 e 411, c.p.c., con modalità inoppugnabili. Ratifica che, tuttavia, non era stata poi effettuata.
Per quanto vi fosse la presenza di un sindacalista, e per quanto quello raggiunto fosse già un atto contenente tutti i requisiti per avere rilevanza ai sensi dell’articolo 2113, comma 4, cod. civ., il fatto che le parti avessero inteso condizionare l’accordo a un successivo adempimento per renderlo non impugnabile avrebbe potuto portare, da solo, a una valutazione giudiziale circa l’operatività del regime di invalidità previsto dall’articolo 2113, cod. civ..
In altre parole, se, come si legge nell’ordinanza, “l’accordo conciliativo tra le parti in causa (integralmente trascritto alle pp. 4 e 5 del ricorso per cassazione) è stato concluso ai sensi degli articoli “410 e 411 cod. proc. civ. e 2113, 4 c., cod. civ.”, … e reca la precisazione che lo stesso è da “ratificarsi successivamente con le modalità inoppugnabili indicate agli articoli. 410 e 411 cod. proc. civ.” (v. ricorso p. 5, secondo cpv.)”, era evidente che la volontà delle parti convergesse nel senso di dovere integrare l’accordo con un successivo passaggio, in mancanza del quale, sempre per espressa volontà delle parti, l’accordo non sarebbe stato ritenuto inoppugnabile.
La Corte, come del resto avrebbero potuto fare i giudici dei precedenti gradi, avrebbe, pertanto, ben potuto risolvere la questione, addivenendo sempre alla conclusione dell’invalidità dell’accordo, in applicazione dall’articolo 1362, cod. civ., basandosi sull’individuazione della comune intenzione delle parti, e dell’articolo 1363, cod. civ., interpretando le clausole le une per mezzo delle altre, attribuendo a ciascuna il senso che risulta dal complesso dell’atto[4].
Nella motivazione dell’ordinanza, la Corte, tuttavia, ha aggiunto che: “l’accordo in esame è stato sottoscritto dal datore di lavoro e dal lavoratore, alla presenza di un rappresentante sindacale, presso i locali della società. Tali modalità non soddisfano i requisiti normativamente previsti ai fini della validità delle rinunce e transazioni in base alle disposizioni richiamate e correttamente la sentenza impugnata ha dichiarato la nullità dell’accordo in esame. Nel sistema normativo sopra descritto, la protezione del lavoratore non è affidata unicamente alla assistenza del rappresentante sindacale, ma anche al luogo in cui la conciliazione avviene, quali concomitanti accorgimenti necessari al fine di garantire la libera determinazione del lavoratore nella rinuncia a diritti previsti da disposizioni inderogabili e l’assenza di condizionamenti, di qualsiasi genere. Le citate disposizioni del codice di procedura civile individuano infatti non solo gli organi dinanzi ai quali possono svolgersi le conciliazioni ma anche le sedi ove ciò può avvenire, come emerge in modo inequivoco dal tenore letterale delle stesse. L’articolo 410 prevede che il tentativo di conciliazione possa avvenire “presso la commissione di conciliazione” e l’articolo 411, c. 3, fa riferimento alla conciliazione “in sede sindacale””.
Ha continuato, però, la Corte richiamando la giurisprudenza, del tutto condivisibile, in punto di effettività dell’assistenza del sindacalista, salvo poi ancora tornare a sostenere che “i luoghi selezionati dal legislatore hanno carattere tassativo e non ammettono, pertanto, equipollenti, sia perché direttamente collegati all’organo deputato alla conciliazione e sia in ragione della finalità di assicurare al lavoratore un ambiente neutro, estraneo al dominio e all’influenza della controparte datoriale (non depone in senso contrario Cass. n. 1975 del 2024, concernente una conciliazione ai sensi dell’articolo 412 ter cod. proc. civ.)”, per concludere che: “la conciliazione in sede sindacale, ai sensi dell’articolo 411, c. 3, cod. proc. civ., non può essere validamente conclusa presso la sede aziendale, non potendo quest’ultima essere annoverata tra le sedi protette, avente il carattere di neutralità indispensabile a garantire, unitamente alla assistenza prestata dal rappresentante sindacale, la libera determinazione della volontà del lavoratore. Il ricorso incidentale condizionato è, di conseguenza, assorbito”.
La questione è, quindi, quella di capire se, indipendentemente dal caso specifico (del tutto particolare, in quanto le parti stesse avevano espressamente demandato a una fase successiva la ratifica dell’accordo al fine di renderlo inoppugnabile), la stipulazione di un accordo con l’effettiva assistenza sostanziale del sindacato, ma presso locali diversi da quelli del sindacato e, in particolare, presso sedi riferibili al datore di lavoro sia o no valida ai fini dell’operatività dell’articolo 2113, comma 4, cod. civ..
Prima di provare ad articolare alcune osservazioni sull’ordinanza, giova precisare che la precedente ordinanza Cassazione n. 1975/2024 citata dalla Corte per escludere il contrasto con quella in commento, pur avendo richiamato l’articolo 412-ter, c.p.c., si era espressa – per quanto possibile comprendere dalla lettura del testo – invero su una vicenda che non riguardava una conciliazione secondo un’espressa regolamentazione della contrattazione collettiva. Dunque, parrebbe ricorrere un vero e proprio contrasto tra gli opposti orientamenti.
La (non) necessaria fisicità della sede sindacale
L’ordinanza n. 10065/2024 si fa apprezzare nella parte in cui, dando evidenza alla peculiarità del fatto, ha ritenuto che la mancanza della successiva ratifica dell’accordo deponesse nel senso di non ritenere inoppugnabile la transazione.
Qualche perplessità in più desta, nondimeno, la tesi secondo cui occorrerebbe assegnare valore determinante ai locali nei quali sia sottoscritto l’accordo, tanto da dover ritenere impugnabili le transazioni raggiunte, anche con l’effettiva assistenza del sindacato, fuori dai locali del sindacato.
In primo luogo, è vero che l’articolo 411, c.p.c., parla espressamente di “sede sindacale”, ma è chiaro che l’espressione “sede sindacale” contenuta nella disposizione sia da intendersi riferita all’“assistenza sindacale” e non ai “locali del sindacato”, posto che, attribuendo un valore rigidamente fisico alla parola “sede”, si finirebbe per privilegiare la topografia del luogo persino a discapito dell’effettiva assistenza del sindacalista. La sede sindacale è, al contrario, più correttamente da intendersi come quella nella quale il sindacalista dell’associazione cui il lavoratore aderisce o conferisce mandato espleti il proprio mandato, prestando al lavoratore giusta e adeguata assistenza.
Non a caso, la Cassazione, a un certo punto nel testo dell’ordinanza, finisce per richiamare proprio la giurisprudenza sull’effettività dell’assistenza, affermando che “l’assistenza prestata da rappresentanti sindacali (esponenti della organizzazione sindacale cui appartiene il lavoratore o, comunque, dal medesimo indicati, v. Cass. n. 4730 d 2002; n. 12858 del 2003; n. 13217 del 2008) deve essere effettiva e ha lo scopo di porre il lavoratore in condizione di sapere a quale diritto rinunci e in che misura (v. Cass. n. 24024 del 2013; n. 21617 del 2018; n. 25796 del 2023; n. 18503 del 2023 in motivazione), così da consentire l’espressione di un consenso informato e consapevole”.
Il richiamo alla giurisprudenza sull’effettività dell’assistenza conferma l’unico significato da attribuire all’espressione “sede sindacale”.
La sede sindacale non sono i locali del sindacato. La sede sindacale è il sindacato, garante della libera volontà del lavoratore, in grado di aiutarlo ad addivenire a determinazioni negoziali consapevoli.
Questa funzione, che sostanzia in sé l’assistenza effettiva, realizza appieno la ratio connessa all’ultimo comma dell’articolo 2113, cod. civ., sicché la transazione così raggiunta sarà da ritenersi stipulata in “sede protetta”.
In secondo luogo, una nozione di sede protetta in senso fisico appare, soprattutto oggi, “fuori tempo”.
L’ordinanza della Corte fa riferimento a luoghi dotati di una necessaria neutralità, come se fosse il locale a garantire al lavoratore la propria libera scelta e come se un luogo potesse essere, di per sé, “di parte”.
Ora. Si pensi alla riforma adottata dal D.Lgs. 149/2022 e all’introduzione della negoziazione assistita, attraverso l’inserimento nel D.L. 132/2014 dell’articolo 2-ter, secondo cui “1. Per le controversie di cui all’articolo 409 del codice di procedura civile, fermo restando quanto disposto dall’articolo 412-ter del medesimo codice, le parti possono ricorrere alla negoziazione assistita senza che ciò costituisca condizione di procedibilità della domanda giudiziale. Ciascuna parte è assistita da almeno un avvocato e può essere anche assistita da un consulente del lavoro. All’accordo raggiunto all’esito della procedura di negoziazione assistita si applica l’articolo 2113, c. 4, del codice civile. L’accordo è trasmesso a cura di una delle due parti, entro dieci giorni, ad uno degli organismi di cui all’articolo 76 del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276”.
In questo caso, la negoziazione si svolge, e l’eventuale accordo è raggiunto, presso lo studio dell’avvocato dell’una o dell’altra parte o, addirittura, in via telematica.
Non solo si tratta, dunque, di luoghi delle parti (datore o lavoratore è indifferente), ma addirittura si prevede anche la possibilità di una modalità tutta telematica.
Eppure, nonostante ciò, il Legislatore (correttamente) ha ritenuto assolto il requisito della “sede protetta” sul solo presupposto dell’assistenza qualificata, con ciò dimostrando che la “sede protetta” è realizzata a prescindere dal luogo fisico in cui la transazione sia stipulata, purché vi sia effettiva assistenza, in questo caso dall’avvocato, nell’articolo 411, c.p.c., del sindacato.
E non è certo l’invio dell’accordo di negoziazione agli organismi dell’articolo 76, D.Lgs. 276/2003, a recuperare una sorta di neutralità del luogo, visto che si tratta di un mero adempimento successivo che si traduce nella semplice trasmissione via pec o raccomandata dell’accordo già perfettamente valido ed efficace.
Ancora. Si pensi alle numerosissime conciliazioni telematiche giudiziali svolte in fase emergenziale e ancora praticate in molti Tribunali. Si può dire forse, dato che le parti non erano presenti nella sede giudiziale, che l’accordo non fosse valido? È chiaro, anche qui, che la garanzia della volontà del lavoratore è stata assicurata dal giudice del lavoro che rappresenta al lavoratore il contenuto delle rinunce, accertandosi della genuinità della volontà che esprime. La sede giudiziale non è una stanza del Tribunale, la sede giudiziale è il giudice.
Lo stesso si può dire per le conciliazioni telematiche davanti alle Commissioni di conciliazione presso l’ITL, con le parti collegate da luoghi diversi o, come spesso è accaduto, dalla sede aziendale. Ancora una volta, la garanzia della volontà del lavoratore è data dall’attività della Commissione.
In terzo luogo, non può tacersi il fatto che, per prassi, anche per legittima comodità logistica dei rappresentanti sindacali (mancanza di locali sindacali, richiesta degli stessi sindacalisti di concentrare le sessioni conciliative, pluralità di lavoratori coinvolti spesso assistiti da OO.SS. differenti, accordi raggiunti a valle di contrattazioni aziendali, accordi nell’ambito di procedure ex L. 223/1991), gli accordi con l’assistenza sindacale siano stipulati in azienda. Accordi ai quali, proprio per l’effettività dell’assistenza, non v’è ragione di attribuire una dignità giuridica e sostanziale inferiore rispetto a quelli siglati presso i locali del sindacato.
[1] Cassazione n. 6664/2022; Cassazione n. 1887/2022.
[2] Cassazione n. 24024/2013.
[3] Cassazione n. 13217/2008.
[4] Cassazione n. 2996/2023; Cassazione n. 21967/2023; Cassazione n. 30141/2022; Cassazione n. 2019/2019; Cassazione n. 12728/2013