Una situazione sempre più frequente nei contenziosi del lavoro riguarda il dipendente che, a seguito di una visita medica, riceve una limitazione all’idoneità per le mansioni assegnate, ma — contemporaneamente — continua a svolgere un’altra attività lavorativa, magari come autonomo o presso un altro datore. Di fronte a questa apparente contraddizione, molti datori di lavoro optano per il licenziamento, ritenendo sussistente un comportamento incoerente o addirittura fraudolento. Ma la giurisprudenza, e in particolare la Corte di Cassazione, non condivide questa visione automatica. L’ordinamento italiano, infatti, impone al datore di lavoro un dovere di ricollocazione: prima di procedere al recesso per sopravvenuta impossibilità della prestazione, deve verificare se esistano mansioni compatibili con lo stato di salute del lavoratore, anche inferiori rispetto a quelle originarie (art. 2103 c.c. e D.Lgs. 81/2008). Il licenziamento non è mai la prima opzione, ma l’ultima ratio. Il nodo centrale, tuttavia, è capire cosa accade quando il lavoratore, pur dichiarandosi non idoneo per motivi sanitari, svolge un’altra attività. In questi casi, il giudice non si limita a registrare il fatto, ma compie un’analisi approfondita per valutare se vi sia effettiva incompatibilità tra le limitazioni mediche e l’attività esterna.
Su questo punto, la Corte di Cassazione ha fornito indicazioni precise e ripetute. In particolare, ha affermato che:
“La limitazione dell’idoneità al lavoro non comporta, di per sé, l’assoluta impossibilità di svolgere qualsiasi altra attività lavorativa, dovendosi valutare caso per caso, in concreto, se le mansioni svolte in altro contesto siano compatibili con lo stato di salute del lavoratore.” (Corte di Cassazione, Sez. Lavoro, Sentenza n. 22545 del 10 novembre 2017)
Questa massima è fondamentale: non basta il semplice svolgimento di un’altra attività a giustificare il licenziamento. Il datore deve dimostrare, con prove concrete (perizie mediche, analisi delle mansioni, confronto tra carichi di lavoro), che l’attività esterna è oggettivamente incompatibile con le limitazioni sanitarie certificate.
Inoltre, la Suprema Corte ribadisce un obbligo stringente in capo al datore:
“In tema di idoneità professionale del lavoratore, è onere del datore di lavoro dimostrare l’assoluta incompatibilità tra lo stato di salute del dipendente e ogni possibile mansione aziendale, anche di livello inferiore.” (Corte di Cassazione, Sez. Lavoro, Sentenza n. 13729 del 26 maggio 2021)
Questo principio chiude la porta a licenziamenti “di comodo” o basati su mere presunzioni. Il giudice non si accontenta di un’apparente contraddizione: richiede una prova rigorosa sia dell’incompatibilità con l’attività esterna, sia dell’assenza di alternative interne all’azienda.
Dove va a parare il giudice? Il giudice del lavoro — e, in appello o in cassazione, i gradi superiori — si muove con prudenza e concretezza. Non punisce il lavoratore solo perché lavora altrove, né assolve il datore solo perché il medico competente ha scritto “non idoneo”. Il focus è sulla compatibilità reale, non formale. Se il lavoratore guida un furgone per conto proprio ma è stato dichiarato inidoneo a sollevare pesi in fabbrica, non c’è automatica contraddizione. Ma se svolge un’attività fisicamente identica a quella vietata, allora il licenziamento potrà reggere — a patto che il datore abbia prima tentato ogni via di ricollocazione. In sintesi, il giudice cerca coerenza, buona fede e proporzionalità. E la Cassazione, con le sue sentenze, disegna un percorso chiaro: nessuno può essere licenziato per un “sospetto di simulazione” senza prove solide. Allo stesso tempo, nessuno può approfittare dello stato di “non idoneità” per sottrarsi al lavoro mentre ne svolge un altro identico. Il caso del lavoratore con limiti medici che svolge un’altra attività è un classico esempio di come il diritto del lavoro italiano bilanci tutela della salute, dignità del lavoratore e esigenze aziendali. La Corte di Cassazione, con sentenze come la n. 22545/2017 e la n. 13729/2021 (entrambe della Sezione Lavoro, con sede a Roma), ha tracciato un confine netto: il licenziamento è legittimo solo se fondato su prove oggettive di incompatibilità e sull’assenza di alternative interne. Oltre quella soglia, non c’è spazio per scorciatoie. Solo per giustizia, ben misurata.

