Negli ultimi anni, il ricorso alla somministrazione di manodopera — in particolare nella forma cosiddetta a tempo indeterminato — ha sollevato crescenti interrogativi in ambito giuridico. Dietro la parvenza di un contratto sicuro, si nasconde spesso una realtà ben più precaria: quella di un lavoratore tecnicamente assunto a tempo indeterminato da un’agenzia, ma inviato in missione presso una stessa azienda utilizzatrice senza alcun limite temporale, e con la possibilità, per l’utilizzatore, di interrompere la missione in qualsiasi momento e senza motivazione.
Proprio su questo punto si è appuntata l’attenzione della giurisprudenza italiana ed europea. Il nodo centrale è la natura temporanea del lavoro somministrato, principio cardine della Direttiva europea 2008/104/CE. Tale norma, infatti, non si limita a regolare le condizioni di parità retributiva tra lavoratori diretti e somministrati, ma impone agli Stati membri di adottare misure concrete per evitare il ricorso abusivo a missioni successive con lo scopo di eludere la temporaneità che deve caratterizzare questa forma flessibile di impiego.
La Corte di Giustizia dell’Unione Europea, nelle sentenze C-681/18 (2020) e C-232/20 (2022), ha chiarito con forza che il termine “temporaneamente”, presente sin dall’art. 1 della Direttiva, non riguarda la natura del posto di lavoro, bensì la modalità stessa della messa a disposizione del lavoratore presso l’impresa utilizzatrice. Ciò significa che, anche se il posto coperto è strutturalmente stabile, la missione del somministrato deve comunque avere una durata limitata nel tempo. Qualora le missioni successive (o un’unica missione a tempo indeterminato) si protraggano per un periodo “non ragionevolmente qualificabile come temporaneo”, si configura un abuso finalizzato a eludere la Direttiva.
Questo orientamento è stato pienamente recepito dalla Corte di Cassazione italiana (sentenza n. 29570/2022 e successive), che ha affermato come il lavoro tramite agenzia non possa trasformarsi in una situazione permanente per lo stesso lavoratore presso la stessa impresa. Il principio fondamentale è chiaro: il contratto di lavoro a tempo indeterminato è la forma comune dei rapporti di lavoro (così recita espressamente il considerando 15 della Direttiva), e la somministrazione deve rappresentare uno strumento transitorio, volto anche a favorire l’assunzione diretta del lavoratore.
Eppure, la disciplina nazionale introdotta dal Decreto Legislativo 81/2015 consente — a certe condizioni — l’invio in missione a tempo indeterminato di un lavoratore somministrato, senza fissare alcun limite temporale alla durata della missione presso lo stesso utilizzatore. Non è prevista nemmeno l’obbligatorietà di motivare la cessazione della missione stessa, né vi è un obbligo di transizione verso un’assunzione diretta, nonostante il lavoratore svolga le stesse mansioni per anni.
In questo contesto, diversi tribunali italiani hanno riconosciuto l’illegittimità di tali prassi, ritenendo che la somministrazione protratta per un periodo eccessivo (es. oltre i 36 mesi, o comunque oltre ciò che può considerarsi “temporaneo” in relazione al settore e alle mansioni svolte) configuri un abuso del diritto, sanzionabile con la costituzione automatica di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato con l’azienda utilizzatrice.
Il punto cruciale, ormai consolidato in giurisprudenza, è che non conta la forma del contratto con l’agenzia (a termine o a tempo indeterminato), ma la sostanza del rapporto di fatto con l’utilizzatore. Se un lavoratore svolge le stesse mansioni, nello stesso reparto, per anni, senza soluzione di continuità, il requisito di temporaneità viene a mancare — e con esso la legittimità dell’intera struttura contrattuale.
D’altronde, come evidenziato da più giudici, se un’azienda ha un fabbisogno strutturale e continuativo di personale, non ha senso ricorrere alla somministrazione: sarebbe ben più coerente assumere direttamente. Il mancato assolvimento di questo onere logico-giuridico, unito alla mancanza di qualsiasi tutela contro il licenziamento ad nutum della missione, rende il “contratto a tempo indeterminato con l’agenzia” una mera finzione, utile solo a sottrarsi alle responsabilità sociali e giuridiche di un datore di lavoro.
In un’ottica di coerenza con il diritto dell’Unione e con i principi costituzionali di tutela del lavoro, è quindi auspicabile — e forse imminente — un intervento legislativo che ponga un freno a queste distorsioni, introducendo limiti temporali chiari anche per le missioni a tempo indeterminato e rafforzando il diritto del lavoratore a un rapporto stabile con chi effettivamente beneficia della sua attività.
Fino ad allora, la giurisprudenza continuerà a svolgere un ruolo di supplenza, proteggendo i lavoratori da forme di precarietà mascherata e ribadendo un principio elementare: la stabilità non si compra con un foglio di carta, ma con un rapporto di fiducia, rispetto e reciproca responsabilità.

