Il demansionamento è una delle fattispecie più insidiose e umilianti nell’ambito del rapporto di lavoro subordinato. Si realizza quando il datore di lavoro assegna al dipendente mansioni inferiori rispetto a quelle per cui è stato assunto o a quelle corrispondenti al suo livello di inquadramento contrattuale. Tale condotta costituisce un inadempimento contrattuale ex art. 2103 del c.c., che così dispone: «Il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti all’inquadramento superiore che abbia successivamente acquisito, nonché a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte, senza alcuna diminuzione della retribuzione». Il fondamento giuridico è, dunque, non solo contrattuale ma anche costituzionale: la professionalità del lavoratore costituisce un bene giuridico tutelato, legato alla dignità personale (art. 2 Cost.) e al diritto al lavoro (art. 4 Cost.).
Il danno da demansionamento NON è automatico: la giurisprudenza della Cassazione
Contrariamente a quanto comunemente si crede, non basta provare l’avvenuto demansionamento per ottenere un risarcimento. La Corte di Cassazione – con l’ordinanza n. 11586 del 2 maggio 2025 – ha ribadito con chiarezza un principio ormai consolidato: «Il danno non è mai scontato, ma va allegato e provato con fatti concreti». Tale principio non è nuovo: risale alla storica sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione n. 6572 del 2006, secondo cui il danno da demansionamento non è “in re ipsa”, ossia non si presume automaticamente dal solo inadempimento datoriale. La Cassazione ha, infatti, annullato con rinvio una sentenza della Corte d’Appello che aveva liquidato un risarcimento senza indicare le circostanze concrete del caso che dimostrassero l’effettivo pregiudizio subìto. In particolare, la durata del demansionamento – poco più di due mesi – non era stata sufficientemente correlata a un danno concreto.
Quali danni possono derivare dal demansionamento?
Il danno patrimoniale si manifesta principalmente attraverso la perdita di professionalità, che si concretizza in un impoverimento delle competenze, con abilità che diventano obsolete, o nella mancata acquisizione di nuove capacità utili per il lavoro. A questo si aggiunge la perdita di opportunità, con una difficoltà oggettiva nel reinserimento nel mercato del lavoro, specialmente in ambiti altamente qualificati o tecnologici. Parallelamente, il danno non patrimoniale comprende diverse sfere. Il danno morale si riflette in una sofferenza interiore caratterizzata da frustrazione, umiliazione e disagio psicologico. Inoltre, il danno biologico si presenta quando lo stress derivante da situazioni come il demansionamento genera patologie riconoscibili, ad esempio una sindrome ansioso-depressiva, che influiscono negativamente sulle attività quotidiane e sulle relazioni personali. A tal proposito, la Cassazione, ordinanza n. 32438/2024, ha precisato: «Il danno conseguente alla lesione dell’integrità psicologica della persona è risarcibile come danno morale, se si mantiene nei termini della compromissione dell’equilibrio emotivo-affettivo del soggetto, e come danno biologico nel caso di degenerazione patologica, suscettibile di accertamento medico-legale».
L’onere probatorio è a carico del lavoratore
Secondo la Cassazione, ordinanza n. 3400/2025: «È risarcibile il danno non patrimoniale ogni qual volta si verifichi una grave violazione dei diritti del lavoratore, da accertare in base alla persistenza del comportamento lesivo, alla durata e alla reiterazione delle situazioni di disagio professionale e personale, all’inerzia del datore rispetto alle istanze del prestatore di lavoro, anche a prescindere da uno specifico intento di declassarlo. La prova spetta al lavoratore». Il lavoratore non è obbligato a fornire testimoni, ma può basare la propria difesa su presunzioni gravi, precise e concordanti, come previsto dall’art. 2729 del c.c.. Tra gli elementi rilevanti a supporto si possono considerare una drastica riduzione della quantità o qualità delle mansioni assegnate, la prolungata durata di una situazione di demansionamento, il cambio di collocazione professionale verso posizioni chiaramente inferiori e l’esistenza di documentazione medica che dimostri una correlazione tra il disagio psicologico subito e il comportamento adottato dal datore di lavoro.
La retribuzione come parametro equitativo del danno
Interessante è la recente affermazione della Cassazione, ordinanza n. 3156/2025: «È pacifico nella giurisprudenza di questa Corte che l’entità della retribuzione possa essere assunta, nell’ambito di una valutazione necessariamente equitativa, quale parametro del danno da demansionamento». In pratica, il giudice, una volta accertata la sussistenza del danno, può quantificarlo in percentuale rispetto alla retribuzione mensile del lavoratore. Un esempio concreto viene dalla Corte d’Appello di Milano, sentenza n. 521/2024, che ha confermato un risarcimento pari al:«30% della retribuzione mensile per l’intero periodo di durata della dequalificazione, pari a quattro anni» Il Tribunale di Milano, il 7 maggio 2025, ha applicato lo stesso criterio, riconoscendo un risarcimento pari al 30% della retribuzione mensile “di fatto” per ogni mese di demansionamento accertato.
Chi subisce un demansionamento non dovrebbe limitarsi a denunciare la violazione, ma adottare un approccio concreto e strutturato per tutelare i propri diritti. È fondamentale documentare in modo preciso la modifica delle mansioni, quantificare il danno economico e/o personale subito, e fornire elementi tangibili che possano evidenziare l’impatto della situazione, come durata dell’evento, visibilità interna o esterna, conseguenze sulla carriera e eventuali disturbi di natura psicofisica correlati. È importante evitare riferimenti generici a stress o umiliazione senza chiarire in che misura tali condizioni abbiano inciso sulla vita professionale e personale. In sostanza, il diritto al risarcimento è previsto ma va dimostrato con solidità in sede probatoria. Come sottolinea la giurisprudenza più recente, la chiave per ottenere un esito favorevole in giudizio risiede proprio nella concretezza dei fatti.

