La Corte Suprema di Cassazione, con l’ordinanza n. 31367 depositata il 1° dicembre 2025, ha riaffermato con grande chiarezza un principio fondamentale del diritto del lavoro: la responsabilità del datore di lavoro per violazione dell’art. 2087 del codice civile sussiste anche in assenza di un intento persecutorio idoneo a configurare il mobbing. Il caso riguardava una lavoratrice – identificata con le iniziali A.A. – che aveva denunciato un ambiente lavorativo fortemente stressogeno nel periodo 2012–giugno 2014, chiedendo il risarcimento dei danni subiti. La Corte d’Appello di Ancona aveva rigettato la domanda, escludendo la configurabilità del mobbing per mancanza di un intento persecutorio unificante e ritenendo le condotte datoriali riconducibili a esigenze di servizio, seppur svolte con modi autoritari e in contrasto con le regole di buona educazione. Inoltre, aveva ritenuto non provato il nesso causale tra le condotte e le patologie psicosomatiche lamentate dalla lavoratrice. La Suprema Corte, tuttavia, ha accolto il ricorso e cassato la sentenza impugnata, rinviando la causa – in diversa composizione – alla Corte d’Appello di Ancona.
Nell’ordinanza, i Giudici della Sezione Lavoro scrivono testualmente:
“Occorre, infatti, ricordare che, per orientamento consolidato di questa Corte, la violazione da parte del datore di lavoro dell’art. 2087 cod. civ. ha natura contrattuale e, dunque, il rimedio esperibile dal dipendente è quello della responsabilità contrattuale, con tutte le conseguenze del caso, soprattutto in tema di prescrizione e onere della prova.”
E ancora, con una frase destinata a diventare punto di riferimento nella giurisprudenza successiva:
“Ove non sia configurabile una condotta di mobbing, per l’insussistenza di un intento persecutorio idoneo ad unificare la pluralità continuata di comportamenti pregiudizievoli, può pur sempre essere ravvisabile la violazione dell’art. 2087 c.c. nel caso in cui il datore di lavoro consenta, anche colposamente, il mantenersi di un ambiente stressogeno fonte di danno alla salute dei lavoratori.”
La Corte sottolinea che non è necessario dimostrare il dolo o la volontà di vessare:
“Comportamenti, anche in sé non illegittimi, ma tali da poter indurre disagi o stress, che si manifestino isolatamente o invece si connettano ad altri comportamenti inadempienti, contribuendo ad inasprirne gli effetti e la gravità del pregiudizio per la personalità e la salute latamente intesi”
possono già costituire violazione dell’obbligo di tutela ex art. 2087 c.c. Inoltre, viene ribadito il ruolo chiave del Testo Unico sulla sicurezza (D.Lgs. 81/2008), in particolare dell’art. 28, che impone al datore di lavoro di valutare tutti i rischi, compresi quelli collegati allo stress lavoro-correlato.
“Ove il datore di lavoro indebitamente tolleri l’esistenza di una condizione di lavoro lesiva della salute, per configurare la responsabilità datoriale è sufficiente che l’inadempimento, imputabile anche solo per colpa, si ponga in nesso causale con un danno alla salute.”
Non meno rilevante è l’osservazione sul cosiddetto “straining” – forma attenuata di mobbing, priva di continuità ma comunque lesiva – che la Corte considera riconducibile all’art. 2087 c.c., con diritto al risarcimento anche in assenza dei tratti tipici del mobbing.
Infine, la Cassazione chiarisce un aspetto cruciale:
“Al di là della tassonomia e della qualificazione come mobbing e straining, quello che conta è che il fatto commesso, anche isolatamente, sia un fatto illecito ex art. 2087 cod. civ. da cui sia derivata la violazione di interessi protetti del lavoratore al più elevato livello dell’ordinamento, ovvero la sua integrità psicofisica, la dignità, l’identità personale, la partecipazione alla vita sociale e politica.”
Questa ordinanza rappresenta un passo ulteriore verso una tutela effettiva della salute psicofisica dei lavoratori, sganciandola dalla necessità di dimostrare un disegno persecutorio da parte del datore. L’obbligo di sicurezza è oggettivo, e il datore risponde anche per negligenza organizzativa o per mancata gestione di un clima lavorativo tossico, indipendentemente dall’intenzionalità. Un monito chiaro per le aziende: l’ambiente di lavoro conta. E chi lo rende insostenibile paga, anche senza aver mai voluto “mobbizzare” nessuno.

