Il contratto di lavoro subordinato a tempo determinato ha – per sua natura una durata stabilita, in forza dell’apposizione di un termine. Datore di lavoro e lavoratore, stipulando questa tipologia di contratto, sono tenuti a rispettare la scadenza concordata. Tuttavia, può succedere che una delle parti abbia l’esigenza o la necessità di risolvere anticipatamente il rapporto.
L’art. 2119 Cod. Civ.
l recesso nel rapporto di lavoro a tempo determinato è disciplinato dall’art. 2119 Cod. Civ.: “Ciascuno dei contraenti può recedere dal contratto prima della scadenza del termine, se il contratto è a tempo determinato, o senza preavviso, se il contratto è a tempo indeterminato, qualora si verifichi una causa che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto. Se il contratto è a tempo indeterminato, al prestatore di lavoro che recede per giusta causa compete l’indennità indicata nel secondo comma dell’articolo precedente”.
In caso di contratto a tempo indeterminato, stante l’assenza di una data stabilita, il recesso è sempre possibile comunicandolo con preavviso, in conformità alle previsioni del CCNL applicato (e se si tratta di recesso datoriale, a fronte di un giustificato motivo oggettivo o soggettivo); oppure senza preavviso, in presenza di una giusta causa.
Tutto cambia nel caso di contratto a tempo determinato.
L’art. 2119 Cod. Civ. stabilisce che il recesso anticipato rispetto alla data del termine contrattuale è ammesso solo se sussiste una giusta causa. Il datore di lavoro può dunque recedere a fronte di una condotta del lavoratore talmente grave da ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario; mentre il lavoratore può recedere in presenza di una situazione che legittimi le dimissioni per giusta causa (tra le ipotesi più frequenti, mancato pagamento delle retribuzioni o versamento della contribuzione obbligatoria, demansionamento, mobbing).
Diversamente, le parti non possono recedere dal contratto prima della sua scadenza, perché sottoscrivendolo si sono vincolate reciprocamente per un certo periodo di tempo.
In applicazione dell’art. 2119 Cod. Civ., la giurisprudenza ha dunque escluso il recesso anticipato per ragioni diverse dalla giusta causa, non potendo trovare applicazione nemmeno il licenziamento per giustificato motivo oggettivo (sul punto, Trib. Roma, 28 settembre 2020, n. 4817, che ha ritenuto “la riorganizzazione dell’assetto produttivo dell’impresa” circostanza non idonea “a risolvere in anticipo un contratto di lavoro a tempo determinato”). Resta invece ferma la possibilità di risolvere consensualmente il rapporto.
In assenza di una giusta causa, il recesso anticipato dal contratto a tempo determinato può comportare un danno per chi ha subìto il recesso: la parte che recede senza una ragione giustificatrice, lede infatti l’interesse dell’altra parte che faceva affidamento su una certa durata del rapporto contrattuale. La parte che ha subìto il recesso, può richiedere al recedente il risarcimento del danno. In tal caso, si pone il problema della prova e della quantificazione del danno.
Se il datore di lavoro recede ante tempus.
La giurisprudenza affermatasi nel tempo ha fornito soluzioni differenti al problema, in base al soggetto che ha intimato il recesso.
Se a recedere senza giusta causa è il datore di lavoro, il danno subìto dal lavoratore viene individuato – e quantificato – nell’ammontare delle retribuzioni che il lavoratore avrebbe percepito dalla data del recesso fino alla scadenza del termine contrattualmente previsto (Trib. Roma, 28 settembre 2020, n. 4817).
La giurisprudenza – sulla scorta degli artt. 1218 e 1223 Cod. Civ. – ha individuato nelle retribuzioni che il lavoratore avrebbe percepito, un parametro utile a risarcire il danno emergente (ossia, ciò che il lavoratore perde nel momento in cui il datore recede anticipatamente senza una giusta causa), nonché il lucro cessante (ossia, il mancato guadagno provocato dal recesso illegittimo; sul punto, Trib. Chieti 14 luglio 2020, n. 132).
Se a recedere è il lavoratore…
Il discorso è diverso nel caso di recesso anticipato del lavoratore privo di giusta causa (ad esempio, dimissioni rassegnate per andare a lavorare altrove a fronte di una migliore offerta economica), perché l’atteggiamento della giurisprudenza è più rigido.
Spesso, nel caso in esame il datore di lavoro chiede all’ex dipendente (o addirittura trattiene direttamente in busta paga) una somma a titolo di risarcimento del danno pari alle retribuzioni dalla data del recesso fino alla scadenza del contratto.
Questo modus operandi non è però avallato dalla giurisprudenza, secondo la quale il datore di lavoro deve provare la sussistenza di un danno(ciò che non viene richiesto al lavoratore, in quanto la sussistenza del danno nel suo caso è considerata implicita nella perdita delle retribuzioni). Ai fini della legittimità della richiesta risarcitoria, il datore di lavoro è gravato dall’onere di dimostrare che l’interruzione improvvisa e anticipata del rapporto da parte del lavoratore ha causato un danno all’organizzazione produttiva (ad esempio, costi di formazione sostenuti, costi di selezione per la scelta del lavoratore e poi per la sua sostituzione, oppure, per casi di alta specializzazione, pregiudizio causato ad un cliente dal recesso illegittimo). In difetto, la richiesta risarcitoria sarebbe priva di fondamento e il lavoratore nulla dovrebbe al datore di lavoro, sebbene il recesso ante tempus da un contrato a tempo determinato non sia consentito se non a fronte di una giusta causa.
Oltre a dover dimostrare l’effettività del danno subìto, e ammesso che ci riesca, il datore di lavoro deve poi affrontare l’ulteriore problema della sua quantificazione. Se in caso di recesso ante tempus da parte del datore di lavoro le retribuzioni perse dal lavoratore sono il parametro di riferimento per il risarcimento, in caso di recesso da parte del lavoratore non vale lo stesso criterio/parametro: la giurisprudenza richiede al datore di lavoro di dimostrare l’ammontare del danno patito; e se è chiamata a compiere una valutazione del risarcimento in via equitativa, quantifica spesso il danno con un importo pari all’indennità di preavviso prevista per il contratto a tempo indeterminato. Come noto, questa indennità ha la funzione economica di attenuare per la parte che subisce il recesso, le conseguenze pregiudizievoli della cessazione del contratto di lavoro a tempo indeterminato; e sebbene nel rapporto a termine il preavviso non trovi applicazione e la relativa indennità sostitutiva non sia dovuta, la giurisprudenza vi ricorre ritenendolo un criterio equo di liquidazione del danno (in tal senso, Trib. Perugia 27 gennaio 2016, n. 28 che sottolinea come questa scelta eviti anche “che il lavoratore [assunto a tempo determinato] possa subire un incomprensibile trattamento di mancato favore rispetto ai lavoratori con contratto a tempo indeterminato”).
In conclusione
l recesso anticipato da un contratto a tempo determinato, privo di giusta causa, può spingere la parte che subisce il recesso a chiedere il risarcimento del danno all’altra parte, con conseguenze pregiudizievoli talvolta anche economicamente rilevanti in capo a quest’ultima.
Al momento della stipula di un contratto a termine, è dunque opportuno valutare con attenzione la durata del rapporto contrattuale e l’effettiva convenienza di vincolarsi per quel determinato periodo di tempo.
Del pari, prima di recedere anticipatamente da un contratto a termine, è opportuno valutare con attenzione che i motivi alla base della decisione configurino una giusta causa di recesso, affinché quest’ultimo risulti legittimo ai sensi dell’art. 2119 Cod. Civ. e non dia origine a richieste risarcitorie.