La Corte di Cassazione, sezione lavoro, con l’ordinanza n. 23029 depositata il 22 agosto 2024,, intervenendo in tema di sanzione disciplinare in caso di ingiurie ed aggressioni verbali ad un dipendente da parte di un collega, ha ribadito il principio di diritto secondo cui “… in tema di licenziamento disciplinare, al fine di selezionare la tutela applicabile tra quelle previste dall’art. 18, commi 4 e 5, della L. n. 300 del 1970, come novellato dalla L. n. 92 del 2012, il giudice può sussumere la condotta addebitata al lavoratore, e in concreto accertata giudizialmente, nella previsione contrattuale che, con clausola generale ed elastica, punisca l’illecito con sanzione conservativa, né detta operazione di interpretazione e sussunzione trasmoda nel giudizio di proporzionalità della sanzione rispetto al fatto contestato, restando nei limiti dell’attuazione del principio di proporzionalità, come eseguito dalle parti sociali attraverso la previsione del contratto collettivo. …” (Cass. n. 11665/2022; Cass. n. 20780/2022)
La vicenda ha riguardato un dipendente, di una società operante nel settore automobilistico, il quale aveva avuto una “storia” con una collega di lavoro poi conclusa. La collega, successivamente, si era fidanzata con altra persona. Tale circostanza aveva suscitato sentimenti negativi nell’ex fidanzato, il quale dopo averle fatto degli iniziali complimenti l’aveva poi insultata. A seguito di tale deprecabile accaduto la società datrice di lavoro gli comunicava il provvedimento di licenziamento. Il lavoratore impugnava il provvedimento di espulsione. il Tribunale adito in sede di opposizione ex lege n. 92 del 2012, confermava la già accertata illegittimità del licenziamento in fase sommaria, accordando, però la tutela prevista dall’art. 18 co. 5 legge n. 300 del 1970, in quanto pur integrante gli estremi del diverbio litigioso e/o oltraggioso, non poneva in discussione l’esatto futuro adempimento della prestazione di lavoro e, quindi, la sanzione espulsiva irrogata difettava del requisito della proporzionalità, con conseguente tutela accordabile prevista dall’art. 18 co. 5 legge n. 300 del 1970. Avverso la decisione dei giudici di prime cure entrambe le parti in causa, proponevano appello. La Corte territoriale respingeva i reclami. La sentenza di appello veniva impugnata dal dipendente fondato su un unico motivo, la società datrice di lavoro resisteva con controricorso.
I giudici di legittimità rigettarono il ricorso incidentale; accolsero il ricorso principale.
Gli Ermellini ricordano sul tema che il “… principio affermato in sede di legittimità (per tutte, Cass. n. 5095/2011; Cass. n. 6498/2012) secondo cui la giusta causa di licenziamento, quale fatto “che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto”, è una nozione che la legge – allo scopo di un adeguamento delle norme alla realtà da disciplinare, articolata e mutevole nel tempo -configura con una disposizione (ascrivibile alla tipologia delle cosiddette clausole generali) di limitato contenuto, delineante un modulo generico che richiede di essere specificato in sede interpretativa, mediante la valorizzazione sia di fattori esterni relativi alla coscienza generale, sia di principi che la stessa disposizione tacitamente richiama.
Tali specificazioni del parametro normativo hanno natura giuridica e la loro disapplicazione è quindi deducibile in sede di legittimità come violazione di legge, mentre l’accertamento della concreta ricorrenza, nel fatto dedotto in giudizio, degli elementi che integrano il parametro normativo e le sue specificazioni, e della loro concreta attitudine a costituire giusta causa di licenziamento, si pone sul diverso piano del giudizio di fatto, demandato al giudice di merito e sindacabile in cassazione a condizione che la contestazione non si limiti ad una censura generica e meramente contrappositiva, ma contenga, invece, una specifica denuncia di incoerenza rispetto agli “standards”, conformi ai valori dell’ordinamento, esistenti nella realtà sociale. …”
Il Supremo consesso ha ritenuto che “… tale condotta, pur di rilievo disciplinare in quanto si era trattato di una aggressione verbale ingiuriosa, non costituisse giusta causa di licenziamento.
(…) Non viene in rilievo un problema, quindi, di violazione del parametro normativo di cui all’art. 2119 cc e/o di contrarietà alle regole di comune e civile convivenza esistenti nella realtà sociale che condanna qualsiasi forma di violenza, anche verbale, nei confronti delle donne, perché la sentenza impugnata ha dato atto della rilevanza disciplinare della condotta, realizzata mediante l’utilizzo di termini ex se umilianti e dunque con modalità volte a creare scandalo ed attuata con premeditazione e perseveranza del lavoratore di offendere la collega ma, sulla base di un accertamento di merito (per mezzo del quale è stato ritenuto trattarsi di un comportamento non seguito da vie di fatto e che aveva leso unicamente la normalità ed il decoro dei rapporti interpersonali sul posto di lavoro) e di valutazioni giuridiche non contrarie a norme di legge (e cioè che la condotta non integrava fatti di reato né aveva determinato condanne in sede penale generatore di discredito per la personalità morale del lavoratore ovvero era espressione di recidiva), ha ritenuto che la stessa non si rivelasse incompatibile con il permanere del vincolo fiduciario che deve caratterizzare la relazione lavorativa. …”