Immaginiamo un lavoratore, assunto come appartenente alle “categorie protette”, impiegato in un supermercato come banconiere nel reparto gastronomia. Il rapporto è formalmente regolato da un contratto di somministrazione tramite un’agenzia per il lavoro, ma di fatto è gestito in ogni aspetto dall’impresa utilizzatrice: turni, mansioni, valutazioni. Nulla di anomalo, finché, durante il servizio, un diverbio con un collega — riguardante il modo corretto di affettare un salume — sfocia in un’aggressione con un coltello da salumeria. La ferita è alla coscia, superficiale ma inequivocabile. Mentre il sangue cola, il direttore del punto vendita — presente — non chiama soccorsi, né le forze dell’ordine. Si limita a invitare il lavoratore a “mettersi in malattia” e ad allontanarsi. Fuori dal negozio, lo stesso aggressore lo attende, lo colpisce al naso e lo minaccia di morte: “Ti vengo a cercare a casa”. Ancora una volta, il direttore assiste, inerte.
Questo non è un semplice episodio di violenza interpersonale. È un infortunio sul lavoro.
L’art. 2 del D.P.R. n. 1124/1965 definisce infortunio sul lavoro “l’evento lesivo derivante da causa violenta in occasione di lavoro, da cui sia derivata la morte o un’inabilità permanente… ovvero un’inabilità temporanea assoluta che importi l’astensione dal lavoro per più di tre giorni”. La giurisprudenza della Corte di Cassazione ha più volte chiarito che rientrano in tale nozione anche le aggressioni da parte di colleghi o terzi, purché il nesso con l’occasione di lavoro sia dimostrabile (Cass. n. 770/2023). Non conta se la violenza nasca da un litigio professionale o da tensioni interne: se accade nel luogo, nell’orario e nell’ambito delle mansioni, è infortunio. Non è necessario che il datore l’abbia causato; basta che si sia verificato “in occasione di lavoro”, nozione ampiamente interpretata in senso oggettivo e funzionale alla tutela del lavoratore (Cass. n. 22180/2021). Eppure, in questo caso, il medico del Pronto Soccorso, pur annotando nella cartella clinica che “il paziente è stato aggredito sul posto di lavoro da persona sconosciuta con arma bianca”, emette un certificato di malattia, non di infortunio. Nessuna denuncia viene inviata all’INAIL. Nulla viene fatto per attivare le tutele previste dalla legge. Il lavoratore, già in condizione di vulnerabilità per via della sua invalidità civile al 50%, si ritrova abbandonato: senza indennità, senza assistenza, con minacce che lo perseguitano fuori dal luogo di lavoro.
Qui si innesta una serie di violazioni giuridiche gravi.
In primo luogo, l’obbligo generale di sicurezza di cui all’art. 2087 del codice civile, che impone al datore di lavoro di adottare “le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale del prestatore di lavoro”. La Cassazione ha chiarito che questo obbligo non è meramente formale, né si esaurisce nella predisposizione di dispositivi di sicurezza: include la vigilanza continua, la gestione dei conflitti, la formazione sui rischi specifici (Cass. n. 6404/2025). In un reparto in cui si maneggiano coltelli, dove si interagisce con il pubblico e con colleghi precari, la prevedibilità di tensioni è alta. La mancata prevenzione e il mancato soccorso, dunque, non sono omissioni accidentali: sono inadempimenti colposi. In secondo luogo, viene violato il principio di parità di trattamento tra lavoratori somministrati e dipendenti stabili, sancito dall’art. 35, comma 1, del d.lgs. 81/2015. Il lavoratore somministrato ha diritto “a condizioni economiche e normative complessivamente non inferiori a quelle dei dipendenti di pari livello dell’utilizzatore”. Ciò include non solo la retribuzione, ma anche la tutela infortunistica, l’accesso alle procedure di sicurezza, l’informazione sui diritti. La Cassazione ha ribadito che la parità di trattamento riguarda l’intero assetto di protezione del lavoratore, specie quando si tratta di soggetti vulnerabili (Cass. n. 18675/2019). Negare a un lavoratore somministrato ciò che verrebbe immediatamente riconosciuto a un dipendente diretto è discriminazione diretta, illegittima e lesiva della dignità costituzionalmente garantita (art. 3 Cost.). Ancora, la condotta descritta configura un caso tipico di interposizione illecita di manodopera (art. 30, d.lgs. 81/2015). Quando il lavoratore è inserito stabilmente nel ciclo produttivo, gestito direttamente dall’utilizzatore, e il rapporto con l’agenzia è meramente formale, il contratto di somministrazione diventa una copertura elusiva. In tali casi, l’utilizzatore assume la qualifica di datore di fatto, e risponde in solido non solo per retribuzione e contributi, ma anche per i danni derivanti da inadempimenti in materia di sicurezza (Cass. n. 34968/2022). Il danno subito dal lavoratore non è solo patrimoniale — perdita della retribuzione del giorno dell’evento, mancata integrazione datoriale ex CCNL, mancata indennità INAIL — ma soprattutto non patrimoniale. La ferita, le minacce, l’abbandono, il silenzio delle aziende anche dopo diffide e comunicazioni urgenti: tutto concorre a un pregiudizio morale ed esistenziale di rilevante gravità. La Cassazione ha più volte affermato che il danno non patrimoniale è risarcibile anche in caso di inadempimento contrattuale, quando vengano lesi diritti inviolabili della persona (Cass. n. 14946/2009; Cass. SS.UU. n. 26972/2008). L’omissione di tutela, in un contesto di vulnerabilità, aggrava il pregiudizio e giustifica una liquidazione equa e riparativa. Infine, il rifiuto di produrre le registrazioni video dell’aggressione — nonostante la richiesta ex art. 118 c.p.c. — non è un semplice atto processuale: è un’ulteriore manifestazione di condotta elusiva, rilevante anche ai fini del giudizio di merito. La giurisprudenza riconosce che il datore che detiene la prova e la nega agisce in violazione del dovere di correttezza e buona fede (Cass. n. 13519/2022), e ciò può giustificare l’applicazione del criterio presuntivo (art. 2712 c.c.). Questo caso non riguarda solo un singolo lavoratore. È la prova di come, ancora oggi, forme contrattuali atipiche possano essere strumentalizzate per deresponsabilizzare il datore e negare tutele fondamentali a chi è già in condizione di fragilità. Ma la legge, la giurisprudenza e il buon senso sono chiari: la sicurezza sul lavoro non è un optional, né una concessione. È un diritto soggettivo pieno, ancor più quando la persona è esposta a rischi oggettivi e soggettivi. E chi lo nega, deve risponderne — in solido, con rigore, e con risarcimento.

