Nel panorama del diritto del lavoro italiano, il licenziamento per giustificato motivo oggettivo—comunemente definito “licenziamento economico”—non può essere esercitato con leggerezza. La legge impone al datore di lavoro un obbligo rigoroso: prima di procedere al recesso, deve dimostrare non soltanto l’esistenza di una causa economica, tecnica, organizzativa o produttiva, ma anche l’impossibilità di ricollocare il lavoratore in altra posizione all’interno dell’azienda, anche in mansioni diverse o di livello inferiore. Questo dovere, noto in dottrina e giurisprudenza come obbligo di repêchage, non è meramente formale, bensì sostanziale e probatorio. La questione centrale è la seguente: prima del licenziamento, l’azienda deve provare che non c’è altro posto? La risposta, netta e consolidata nella giurisprudenza di legittimità, è: sì. Non spetta al lavoratore indicare dove potrebbe essere ricollocato; al contrario, è il datore di lavoro—unico detentore delle informazioni sull’organizzazione aziendale—a dover dimostrare, con prove concrete e documentate, che non esiste alcuna possibilità di riassorbimento del dipendente. L’articolo che segue analizza in profondità la natura giuridica di tale obbligo, la sua collocazione nel sistema processuale, gli orientamenti della Corte di Cassazione e le conseguenze pratiche per le imprese e i lavoratori.
Il fondamento giuridico dell’obbligo di repêchage
L’obbligo di repêchage trova fondamento nell’articolo 13 della Legge 30 luglio 1975, n. 307, nonché nei principi generali del diritto del lavoro, in particolare nel rispetto del principio di proporzionalità e della tutela costituzionale del diritto al lavoro (art. 4 Costituzione). Il licenziamento, infatti, non è mai un atto arbitrario. L’art. 13 della legge 307/1975 richiede che il datore di lavoro, in caso di crisi aziendale o ristrutturazione, valuti preventivamente ogni possibile alternativa all’estromissione del lavoratore. La cessazione del rapporto deve rappresentare, come ribadito dalla giurisprudenza, l’extrema ratio, ossia l’ultima opzione disponibile dopo aver esaurito ogni tentativo di salvaguardare il posto di lavoro. In questo contesto, il repêchage non è un mero esercizio burocratico, ma una verifica sostanziale sulla effettiva impossibilità di reimpiego del dipendente, anche in posizioni diverse da quelle originarie o in strutture controllate o collegate. La Cassazione ha più volte sottolineato che “la professionalità del lavoratore deve essere considerata in modo flessibile, tenendo conto anche della sua capacità di adattamento e riqualificazione” (Cass. n. 11467/2021).
L’onere della prova: un principio processuale inderogabile
Il punto più delicato—e spesso sottovalutato dalle imprese—riguarda l’onere della prova. La questione non è se il lavoratore poteva essere ricollocato, ma se l’azienda ha dimostrato che non era possibile farlo. La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 24195 del 2020 (Sezione Lavoro), ha fornito un chiarimento fondamentale: “Nel licenziamento per giustificato motivo oggettivo, l’onere di allegazione e di prova dell’impossibilità di ricollocamento del lavoratore grava interamente sul datore di lavoro. Pretendere che il lavoratore indichi le posizioni disponibili all’interno dell’azienda equivarrebbe a scindere illegittimamente l’onere di allegazione da quello della prova, in contrasto con i principi del nostro sistema processuale.” Questa pronuncia è particolarmente importante perché ribadisce un principio cardine del processo civile: chi agisce deve provare. Poiché è l’azienda a voler porre fine al rapporto di lavoro, spetta a essa dimostrare non solo l’esistenza del motivo economico, ma anche l’inesistenza di soluzioni alternative. È quindi errato sostenere, come talvolta accade in giudizio, che “il lavoratore non ha indicato posti liberi” o “non ha chiesto di essere spostato”. Tale argomentazione, oltre a essere giuridicamente infondata, tradisce una visione sostanzialmente individualistica del rapporto di lavoro, incompatibile con la struttura solidaristica e collaborativa prevista dall’ordinamento italiano.
Il repêchage include anche mansioni inferiori o diverse?
Il repêchage include anche mansioni inferiori o diverse?Sì. L’obbligo di verifica non si limita a ruoli equivalenti al profilo professionale del dipendente, ma si estende a qualsiasi posizione disponibile, anche di livello inferiore o diversa da quella ricoperta. La Cassazione ha affrontato espressamente il tema in una vicenda emblematica. In un caso specifico, un lavoratore aveva lamentato la presenza di posti vacanti nel reparto “amministrazione e controllo”. Durante il dibattimento, però, era emerso che vi erano posti liberi anche nel settore commerciale come “venditore”. L’azienda non aveva interpellato il dipendente né tantomeno valutato se fosse disposto a ricoprire tali mansioni. La Suprema Corte ha annullato il licenziamento, osservando che: “L’obbligo di repêchage comprende la verifica di ogni possibile utilizzo del lavoratore, anche in mansioni diverse o di livello inferiore, qualora esistano posti effettivamente vacanti e compatibili con il suo profilo”. Ciò significa che, se esistono posti liberi in azienda, anche non perfettamente sovrapponibili al ruolo del dipendente licenziato, il datore ha il dovere di proporli preventivamente. L’assenza di tale proposta rende il licenziamento illegittimo, poiché dimostra che l’azienda non ha effettuato la verifica richiesta dalla legge. Naturalmente, non si richiede l’impossibile: il datore non deve creare posti ad hoc né imporre al lavoratore mansioni totalmente incompatibili con la sua formazione o condizione fisica. Tuttavia, la valutazione va fatta in concreto, sulla base delle effettive disponibilità organizzative. Ciò significa che, se esistono posti liberi in azienda, anche non perfettamente sovrapponibili al ruolo del dipendente licenziato, il datore ha il dovere di proporli preventivamente. L’assenza di tale proposta rende il licenziamento illegittimo, poiché dimostra che l’azienda non ha effettuato la verifica richiesta dalla legge. Naturalmente, non si richiede l’impossibile: il datore non deve creare posti ad hoc né imporre al lavoratore mansioni totalmente incompatibili con la sua formazione o condizione fisica. Tuttavia, la valutazione va fatta in concreto, sulla base delle effettive disponibilità organizzative.
Conseguenze del mancato rispetto dell’obbligo di repêchage
Qualora il giudice accerti che l’azienda non ha adempiuto all’obbligo di repêchage, il licenziamento viene dichiarato illegittimo ai sensi dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori (Legge 300/1970, come riformato dal D.Lgs. 23/2015). Le conseguenze del licenziamento illegittimo variano in base alla dimensione dell’azienda e alla data di assunzione del lavoratore. Nelle aziende con oltre 15 dipendenti, oppure più di 60 nel settore agricolo, se il licenziamento è ritenuto illegittimo a causa del mancato rispetto del repêchage, il giudice può ordinare al datore di lavoro il pagamento di un risarcimento danni, compreso tra 6 e 36 mesi di retribuzione globale di fatto. In questi casi, non è previsto l’obbligo di reintegra, tranne che in rare situazioni di evidente pretestuosità, come i licenziamenti ad personam. Diversamente, nelle aziende con meno di 15 dipendenti, l’indennità risarcitoria prevista varia tra 2 e 6 mesi di retribuzione. Va sottolineato che il mancato rispetto del repêchage configura un vizio di merito, non di forma: non si tratta di un semplice “errore procedurale”, ma di una mancanza sostanziale nella giustificazione del recesso. Di conseguenza, il licenziamento perde ogni copertura oggettiva e può facilmente rivelarsi strumentale a ragioni personali o discriminatorie.
Un dovere di buona fede e trasparenza
L’obbligo di repêchage non è soltanto un vincolo legale, ma anche un’espressione del dovere di buona fede che governa il rapporto di lavoro (artt. 1175 e 1337 del Codice Civile). Il datore di lavoro, in quanto parte più forte del rapporto, è tenuto a comportarsi con lealtà e trasparenza. La ristrutturazione aziendale non può diventare un alibi per liberarsi di dipendenti sgraditi. Al contrario, deve essere gestita con responsabilità sociale, cercando di preservare il capitale umano prima di ricorrere a misure estreme come il licenziamento. Per il lavoratore, è fondamentale non sentirsi passivo di fronte a una lettera di licenziamento economico. Non è tenuto a conoscere l’organigramma interno né a “salvarsi da solo”. Ha invece diritto a che l’azienda, prima di rescindere il rapporto, documenti in modo esaustivo l’assenza di ogni alternativa di ricollocamento.

