Nel mondo del lavoro, il rapporto tra datore e dipendente si fonda su un elemento spesso sottovalutato ma giuridicamente fondamentale: la fiducia. Quando questa viene meno in modo irreversibile, il contratto può essere risolto per giusta causa, senza preavviso né indennità. Ma cosa succede se il comportamento che lede tale fiducia non avviene durante l’orario di lavoro o lontano dalla sede aziendale? Può comunque giustificare un licenziamento immediato?
Due recenti sentenze – una della Corte d’Appello di Milano (n. 853/2025 del 28 ottobre 2025) e una del Tribunale di Teramo (n. 688/2025) – hanno fornito una risposta netta: sì, se c’è violenza fisica.
La violenza fisica come rottura del vincolo fiduciario
Nel caso milanese, un lavoratore è stato licenziato per aver aggredito un collega negli spogliatoi del magazzino in cui entrambi lavoravano. Gli insulti iniziali erano sfociati in mani alzate: schiaffi, spinte, aggressione fisica conclamata. La Corte d’Appello ha confermato la legittimità del licenziamento, sottolineando un principio fondamentale: non è l’insulto né la minaccia a costituire giusta causa, ma l’uso della violenza fisica, specie quando non si tratti di una reazione puramente difensiva. I giudici hanno richiamato l’art. 2119 del Codice Civile – che disciplina il recesso per giusta causa – e il CCNL applicabile, secondo cui “diverbio litigioso seguito da vie di fatto in servizio fra dipendenti, che comporti nocumento o turbativa al normale esercizio dell’attività aziendale” costituisce illecito disciplinare grave. Ma, cosa ancora più rilevante, hanno sottolineato che la gravità va valutata in concreto, tenendo conto della reale entità del comportamento e della sua proporzionalità rispetto alla sanzione.
Fuori orario o fuori sede? Non importa, se c’è danno all’azienda
Il secondo caso, esaminato a Teramo, amplia ulteriormente l’orizzonte: qui, l’aggressione è avvenuta fuori dall’orario di lavoro e non nella sede del lavoratore aggressore, bensì nel piazzale antistante il negozio dove lavorava la vittima, e poi addirittura al pronto soccorso. Il dipendente licenziato sosteneva che l’episodio fosse frutto di moventi personali (gelosia) e, soprattutto, estraneo al contesto lavorativo. Eppure, i giudici non hanno accolto questa difesa. Hanno rilevato che la gravità della condotta, unita alle modalità esecutive (aggressione in luogo pertinenziale alla sede di lavoro, seguita da una seconda aggressione in un luogo pubblico), denotava una totale indifferenza verso gli interessi aziendali. L’episodio, infatti, aveva inevitabilmente ripercussioni sull’organizzazione del lavoro, sul clima aziendale e sulla reputazione dell’impresa.
In altre parole: non conta solo dove o quando accade un fatto, ma se e come esso incide sulla fiducia del datore nella professionalità e affidabilità del dipendente.
Un principio di buonsenso giuridico
Queste pronunce ribadiscono un principio ormai consolidato nella giurisprudenza: il lavoratore non è tenuto a “spegnere” la propria identità fuori dall’orario d’ufficio, ma deve comunque astenersi da comportamenti tali da compromettere il rapporto di lavoro. La violenza fisica – in particolare se non giustificata da ragioni di legittima difesa – è considerata un atto lesivo non solo della persona offesa, ma dell’intera comunità aziendale.
La lezione è chiara: le mura dell’azienda non costituiscono un confine morale invalicabile. Il buon comportamento, la responsabilità e il rispetto sono tratti attesi non solo sul posto di lavoro, ma anche nelle condotte collegate, direttamente o indirettamente, alla sfera professionale.
Fonti giurisprudenziali citate:
- Corte d’Appello di Milano, sentenza n. 853/2025 del 28 ottobre 2025
- Tribunale di Teramo, sentenza n. 688/2025

