In una recente ordinanza depositata il 6.11.2025 (R.G.N. 6098/2023), la Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, è tornata a pronunciarsi sul delicato tema della proporzionalità della sanzione disciplinare e, in particolare, sui confini entro i quali il licenziamento possa ritenersi giustificato in relazione alla disciplina collettiva applicabile. Il caso sottoposto al vaglio della Suprema Corte riguardava un licenziamento disciplinare dichiarato illegittimo già in appello, ma per il quale era stata applicata la tutela indennitaria ex art. 18, comma 5, dello Statuto dei lavoratori, anziché la tutela reintegratoria ex comma 4. La questione centrale riguardava se la condotta addebitata al lavoratore – consistente nella violazione di una prassi operativa interna relativa al controllo delle temperature di cottura – potesse rientrare tra le infrazioni per cui il CCNL del settore Turismo e Pubblici Esercizi prevede sanzioni conservative, ovvero non espulsive.
Il ragionamento della Corte di Appello
La Corte d’Appello di Roma, pur confermando l’illegittimità del licenziamento, aveva ritenuto che la condotta contestata non rientrasse tra quelle tipizzate dal contratto collettivo come meritevoli di sanzione conservativa. In particolare, aveva escluso che la violazione di una prassi aziendale interna (le cosiddette “schede CCP6”) potesse qualificarsi come mera negligenza nell’esecuzione della prestazione lavorativa, ai sensi dell’art. 144, comma 7, lett. c) del CCNL, che sanziona chi “non esegua il lavoro con assiduità oppure lo esegua con negligenza”.
Il rilievo della Cassazione: prevalenza della disciplina collettiva
La Corte di Cassazione, con un orientamento ormai consolidato, ha accolto il ricorso del lavoratore, rilevando due profili di censura fondamentali. In primo luogo, ha precisato che laddove il contratto collettivo qualifichi una determinata condotta come suscettibile di sanzione conservativa, il giudice non può discostarsene per applicare comunque il licenziamento, salvo che accerti l’esistenza di elementi di gravità eccezionale non contemplata dalla contrattazione collettiva. Tale principio è ormai acquisito nella giurisprudenza consoli Cass. n. 8718/2017, n. 9223/2015, n. 13353/2011, n. 19053/2005, n. 5103/1998, n. 1173/1996, n. 8621/2020, n. 14811/2020, e più recentemente Cass. n. 22004/2025. In secondo luogo, la Suprema Corte ha evidenziato che non è richiesto che la previsione collettiva sia “tipizzata nel dettaglio”, ma è sufficiente che la condotta del lavoratore sia sussumibile in una clausola generale ed elastica, quale appunto la negligenza nell’esecuzione della prestazione lavorativa. In tal senso, la violazione di una prassi operativa interna, se riferita a un adempimento essenziale (come il controllo delle temperature in ambito alimentare), può rientrare nella nozione di negligenza ex art. 144, comma 7, lett. c) del CCNL. La Corte ha quindi affermato che l’art. 18, comma 4, dello Statuto dei lavoratori, come modificato dalla legge n. 92/2012, impone la tutela reintegratoria ogniqualvolta il fatto contestato rientri tra quelli sanzionabili con misura conservativa secondo la contrattazione collettiva o il codice disciplinare applicabile. E ciò a prescindere dal giudizio di proporzionalità del giudice, salvo casi eccezionali di gravità non previsti.
Conseguenze e orientamenti applicativi
L’ordinanza in commento si colloca in un filone giurisprudenziale ormai maturo, definito dalla stessa Cassazione come “diritto vivente”, ulteriormente confermato anche dalla Corte costituzionale con sentenza n. 128/2024. Tale orientamento ribadisce un principio cardine del diritto del lavoro contemporaneo: la contrattazione collettiva svolge una funzione qualificante nella graduazione delle infrazioni disciplinari, e il giudice non può disattendere tale graduazione senza un rigoroso accertamento di elementi di eccezionale gravità. La sentenza impugnata è stata quindi cassata e la causa rinviata alla Corte d’Appello di Roma, in diversa composizione, perché proceda a nuovo esame uniformandosi ai principi di diritto richiamati dalla Cassazione.
Questo caso offre un chiaro monito ai datori di lavoro: non basta che un comportamento sia formalmente riprovevole per giustificare il licenziamento. Ciò che conta è il contesto normativo collettivo applicabile e la posizione assunta dalle parti sociali rispetto alla gravità della condotta. In un’ottica di equilibrio tra potere disciplinare e garanzie del lavoratore, la Cassazione conferma che la proporzionalità della sanzione non è un parametro soggettivo, ma è vincolata dalla disciplina collettiva. E questo, oggi più che mai, è un pilastro del diritto del lavoro italiano.

