In un mercato del lavoro sempre più flessibile, caratterizzato da turni spezzati, orari atipici e prestazioni prolungate, un diritto apparentemente semplice come quello al pasto durante il servizio rischia di trasformarsi in un’area grigia di incertezza giuridica. Eppure, la legge e la giurisprudenza sono chiare: oltre le sei ore di lavoro, il pasto – o il suo equivalente economico – non è una concessione discrezionale del datore, ma un diritto soggettivo del lavoratore.
La norma di riferimento: il Codice del Lavoro
La base normativa primaria è contenuta nel decreto-legge 66 del 2003, convertito in legge con la n. 131 del 2003, il quale all’art. 8, comma 1, stabilisce: “Quando la durata giornaliera del lavoro eccede le sei ore, deve essere concesso al lavoratore un intervallo per la consumazione del pasto”. Questo intervallo, seppure non retribuito in quanto sospensione della prestazione, è un presupposto di sicurezza e dignità lavorativa. La sua funzione non è meramente alimentare: serve a ristabilire le energie psicofisiche del lavoratore, prevenendo affaticamento, cali di attenzione e rischi per la salute e la sicurezza, specialmente in contesti operativi complessi o ripetitivi.
Il buono pasto: strumento sostitutivo del servizio mensa
Quando l’azienda non fornisce un servizio di ristoro interno, o quando questo non è accessibile a causa dell’orario di servizio, il lavoratore ha diritto a un equivalente economico, comunemente noto come buono pasto (o ticket restaurant). Questo istituto non è previsto in via generale dalla legge, ma discende direttamente dalla contrattazione collettiva nazionale.In molti settori, infatti, i Contratti Collettivi Nazionali di Lavoro (CCNL) prevedono espressamente che il buono pasto debba essere corrisposto “qualora non sia disponibile un servizio di mensa aziendale”, e sempre che il turno superi le sei ore. Una formulazione tipica – e giuridicamente vincolante – recita: “Ai lavoratori che prestino servizio per almeno sei ore giornaliere, ivi compresi i turnisti, è corrisposto un buono pasto in conformità alla normativa vigente, qualora non sia disponibile un servizio di mensa aziendale”.
Questa clausola è presente in numerosi CCNL e costituisce un diritto oggettivo, non subordinato alla volontà unilaterale del datore di lavoro.
La giurisprudenza della Cassazione: nessuna distinzione tra turnisti e non
Fin qui la norma. Ma cosa succede quando un’azienda nega il buono pasto ai dipendenti con turni pomeridiani, serali o notturni, sostenendo che “la mensa è aperta” – sebbene chiudendo alle 14:30 o alle 15:00? La Corte di Cassazione ha fornito una risposta netta e inequivocabile. Con ordinanza n. 25525 del 17 settembre 2025, la Suprema Corte ha affermato: “In materia di pubblico impiego privatizzato, il diritto a fruire buono pasto spetta ai lavoratori che osservano un orario di lavoro giornaliero di almeno sei ore senza distinzione tra turnisti e non”. La pronuncia, ripresa da fonti autorevoli come Il Sole 24 Ore – Enti Locali ed Edilizia, chiarisce un principio fondamentale: la “disponibilità” della mensa va valutata in concreto, non in astratto. Se un lavoratore svolge il proprio turno dalle 16:00 alle 23:00, la mensa chiusa alle 14:30 non è “disponibile” – e quindi scatta automaticamente l’obbligo del buono pasto sostitutivo.
Discriminazione oraria e violazione della Costituzione
Negare il buono pasto sulla base dell’orario di servizio configura una discriminazione indiretta, vietata dall’art. 3 della Costituzione, che sancisce l’uguaglianza di tutti i cittadini “senza distinzione di […] condizioni personali e sociali”. La disparità di trattamento tra “chi lavora di mattina” e “chi lavora di sera” non trova alcuna giustificazione oggettiva e viola il principio di parità sostanziale. Inoltre, tale prassi lesiva intacca il diritto alla dignità del lavoro, tutelato dall’art. 36 della Costituzione, il quale garantisce una retribuzione “proporzionata alla quantità e qualità del lavoro”. Il buono pasto, in questo contesto, non è un “extra”, ma parte integrante di una retribuzione equa e dignitosa. Il buono pasto per chi lavora oltre le sei ore non è un “benefit aziendale”, né un “regalo” legato alla disponibilità dei servizi interni. È un diritto contrattuale, costituzionalmente rilevante e giurisprudenzialmente consolidato. Chiunque svolga un turno superiore a sei ore, e non possa accedere materialmente alla mensa aziendale a causa degli orari di chiusura, ha diritto al buono pasto sostitutivo. Negarlo significa violare il CCNL, la Costituzione e la giurisprudenza della Corte di Cassazione. In un’epoca in cui la flessibilità del lavoro è spesso sinonimo di precarietà, tutelare diritti primari come quello al pasto è un atto di civiltà giuridica – e un dovere per ogni datore di lavoro.

